Fa molto discutere e speriamo anche molto riflettere l’espressione che ritroviamo nel libro in uscita in cui una nota conduttrice televisiva racconta la sua dolorosa esperienza. Sembrerebbe a prima vista un’espressione perfettamente in linea con l’etica cristiana e con la fede, che però ci impone di pensare la nostra vita, comprese le esperienze dolorose, nel confronto con Gesù di Nazareth, di cui il cristiano è chiamato ad “avere gli stessi sentimenti” (Fil 2,5).
Se interpretiamo la parola “dono” nel senso di qualcosa che ci è dato e che ci sopraggiunge non perché lo abbiamo scelto, allora è innegabile la profonda verità di questa espressione. Ma di fronte al dato-dono di qualcosa che non si desidererebbe, abbiamo due possibilità: la ribellione e/o l’accoglienza, l’urlo e/o la sottomissione. Ebbene in Gesù di Nazareth rinveniamo entrambi queste posizioni, peraltro in sequenza: dal rifiuto all’accoglienza, dall’urlo alla sottomissione. Ed egli vive questo drammatico “passaggio” sia nel Getsemani che sul calvario. Nell’orto degli ulivi tenta di convincere il Padre ad allontanare da sé il calice amaro della croce, per poi decidere di fare la Sua volontà e non la propria, sul calvario urla all’abbandono di Dio per poi rimettere nelle Sue mani il proprio spirito, ovvero la propria esistenza. E Gesù ci salva con la sua scelta libera di compiere la volontà del Padre prima ancora che con la sofferenza fisica subita e sofferta per la crudeltà degli uomini.
Il dono non desiderato non diventa per questo desiderabile, ma può consentirci di riflettere sulla fragilità della nostra esistenza, sul fatto che non tutto dipende da noi nella nostra storia personale e in quella della società e del mondo, ed anche della chiesa. Ciò che ci è dato e ci fa soffrire e persino morire, è solo un’occasione, ovvero una possibilità, di esercitare la nostra libertà di fronte al mistero dell’esistenza, che è il mistero della vita, della morte e dell’amore. Ed è quest’ultimo che offre un senso alla sofferenza e alla morte, che altrimenti sarebbero semplicemente assurde e crudeli.
Il cristiano non deve augurarsi la propria sofferenza, né augurarla ad alcuno, piuttosto pregare perché sia allontanato il calice amaro della malattia, della solitudine, della povertà, della violenza… E solo qualora la sua preghiera non venga esaudita, attingere alle proprie risorse spirituali e umane per cercare di trasformare-trasfigurare la propria croce, abbracciandola, insieme a quella del Signore Gesù.