Cosa dovrà essere il giornalismo professionale per non finire nell’irrilevanza? E cosa può dire al giornalismo di oggi un sacerdote vissuto nel Seicento? O, se volete: perché mai San Francesco di Sales è stato eletto a Santo patrono dei giornalisti? Consacrato nel 1593, ben presto s’accorse che nelle terre di Calvino i suoi sermoni dal pulpito non erano molto ascoltati. Non si perse d’animo e cominciò a pubblicare dei fogli volanti, i “manifesti”, che affiggeva ai muri delle case, o che passava sotto gli usci delle abitazioni, anticipando, con creatività, di secoli i tazebao cinesi o, se vogliamo, i messaggi dei tweet, e i post su Facebook. Un campione in fatto di comunicazione di massa, un innovatore, innamorato della sua gente, che cercava di fare comunità inventando forme nuove di “rete”. E’ la stessa sfida che si trovano ad affrontare oggi i media.
Proprio sull’attualità del santo vescovo di Ginevra s’è riflettuto a Padova, in occasione del centenario della proclamazione di San Francesco di Sales patrono dei giornalisti, al convegno “Tutto appartiene all’amore” organizzato dall’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana) e dall’Isre (Istituto internazionale salesiano di ricerca educativa). Da cogliere è l’essenza di alcuni interventi che hanno cercato, più di altri, di offrire alcune tracce da seguire, almeno quattro, in coerenza con lo stile comunicativo del Santo, per abitare l’informazione ai tempi del digitale.
"DOLCEZZA, VERITA’ E TERRITORIO"
La road map indicata al convegno padovano dal salesiano don Moreno Filipetto è sintetizzata nel trinomio “Dolcezza, verità e territorio”. Dolcezza: significa intervenire usando “parole non-ostili”, in un’infosfera pervasa da hate-speach, intolleranza per le minoranze, e polarizzata dagli algoritmi che dividono gli utenti dei social in tribù contrapposte e autoreferenziali. Verità: nel mare magnum informativo inquinato dalle fake news, compito del giornalismo è quello di recuperare una credibilità dissipata negli anni. “Un sondaggio di Gallup - ricordava il giornalista ed esperto di nuovi media Luca De Biase, a un altro recente simposio - dice che la fiducia degli americani nei giornali e nei notiziari televisivi è in forte calo. Nel 1974 il 70% degli americani si fidava dei giornali e dei notiziari televisivi. Oggi la percentuale di chi si fida è scesa al 34%”. Una volta si diceva: “non può che essere vero, l’ho visto in tv”. Oggi non più. E, ovviamente, lo stesso vale per le notizie dei giornali o che girano in rete. Infine Territorio: la notizia nasce sempre da un atto di vicinanza, di “prossimità” (che ha la stessa radice di “prossimo” cosi evangelicamente evocante), da un lavoro sul campo, tra la gente, perché, come ricorda il grande reporter Kapuscinski “senza l’aiuto degli altri non si può scrivere una storia. (…) E senza uno spirito di cooperazione, di buona volontà, di comprensione reciproca, scrivere è impossibile”. Dobbiamo, come giornalisti, ricominciare ad ascoltare. E i giornali diventare comunità.
NOTIZIE SEMPLICI O SEMPLICEMENTE FALSE?
L’attuale contesto informativo sulle grandi piattaforme digitali ha spinto verso la frammentazione e la de-contestualizzazione della notizia. News brevi, semplici, che fungano da clickbait, specchietti per allodole, divertenti, accattivanti fin dai titoli, comunque da consumare in fretta. Così mentre economia, società e politica manifestano una complessità sempre maggiore, l’informazione “tende a prenderla alla leggera”, come afferma Piero Dominici, commettendo un errore madornale: che tale complessità si debba affrontare “semplificando”. Ma questo è solo “riduzionismo”, che spiega nulla del reale, e proprio per questo lo mistifica. Se una notizia è semplice, è… semplicemente falsa. Il fenomeno del complottismo, dilagante nei social, ne è un esempio lampante: chi è il complottista se non uno che trova una spiegazione facile a un fenomeno di non immediata comprensione?
SLOW FOOD E NOTIZIE
Sempre al convegno dell’Ucsi, Paolo Ruffini, prefetto del dicastero per la comunicazione della Santa Sede, facendo accenno all’iper-velocizzazione del ciclo informativo e a i suoi guasti, suggeriva la via “svetoniana” del “festìna lente” (“affrettati con cautela”), un apparente paradosso che nel contesto mediatico attuale non può che voler dire: rispetto alla quantità senza qualità delle turbo-notizie, e alla peste della “verosimiglianza” non verificata, il giornalismo professionale deve prendersi il tempo della verifica per offrire contenuti chiari, certi e approfonditi. E’ un modo per riaccreditarsi col pubblico, perché la cura della notizia è la cura del lettore. E’ la via proposta dallo “slow journalism”, già ben teorizzato e praticato, anche in Italia, che si oppone all’informazione effimera a combustione rapida e caccia-clic, per “spiegare domani i fatti di ieri”, per usare lo slogan di chi lo sta applicando.
COMPETENZA (E I SUOI COSTI)
“Se si parla di Africa come fosse un piccolo Paese, mentre è un continente immenso composto da 54 nazioni, si fa precisamente disinformazione”, ha tuonato dal palco padovano padre Giulio Albanese, creatore dell’agenzia di stampa Misna: “I giornalisti non possono essere dei tuttologi, impreparati sulla materia, incompetenti su quanto scrivono”. E’ uno dei seri problemi che si trova davanti il giornalismo professionale oggi più di ieri. Senza ricerca sul campo e solide conoscenze di base finisce che si va a frugare dentro gli stessi post e file per riciclare qualcosa che assomiglia a una notizia. Questo è il “churnalism” (da churn out, che significa “tirar fuori a getto continuo”), non il giornalismo. Da qui nasce il fenomeno dei cosiddetti “giornali-fotocopia”. Sempre più decisiva sarà, quindi, la preparazione e la specializzazione.
Ciò che Albanese non ha detto è che, per avere buoni giornalisti, bisogna che gli editori investano su di essi e sui prodotti informativi. Da anni, invece, le redazioni si vuotano, è saltato il cambio generazionale, si licenzia; e i pochi redattori rimasti stanno al desk e devono occuparsi di tutto. Con tanti saluti alle competenze specifiche. Ma proprio la competenza è uno dei pochi valori aggiunti certi e irrinunciabili che dovrebbe offrire il giornalismo professionale, specie da quando quest’ultimo ha “perduto il suo ruolo centrale nella vita di relazione”, soppiantato dalle grandi piattaforme digitali e dagli algoritmi, come ci ha ricordato in un altro recente convegno Marco Tedeschini Lalli. In altre parole, conditio sine qua non per non essere destinati all’irrilevanza è il recupero di competenze e credibilità. Che abbisognano di investimenti.
QUEL CORTOMETRAGGIO SU SAN FRANCESCO DI SALES
A proposito di competenze, al convegno sul vescovo di Ginevra è stato presentato un cortometraggio realizzato dai giovani reporter di Cube Radio, l’emittente accademica dell’Istituto universitario salesiano di Venezia (Iusve), sull’attualità della figura del santo. E’ un buon esempio di cosa può fare il “MoJo”, ovvero il mobile journalism, questa forma di narrazione informativa che prevede l’uso prevalente dello smartphone e che sta modificando la routine produttiva di molte redazioni. Avveniristico? No, in uso dal 1995, quando Steve Mann realizzò un’inchiesta negli Usa sulle città sorvegliate da micro-camere e apparati di video-sorveglianza. La materia è un corso universitario allo Iusve. Ma troppo spesso pensiamo che il giornalismo digitale sia quasi di là a venire, o che sia ancora in atto la sua “transizione”, quando invece ha già superato il quarto di secolo di vita. E questo la dice lunga su quanto servirebbe la lungimiranza comunicativa di quel prete del XVII secolo. Che avrebbe usato volentieri anche il mobile journalism.