L’"Acqua granda", la seconda più alta della sua storia dopo quella disastrosa del 1966, arrivò un anno fa. E con i suoi 187 centimetri sommerse Venezia, devastandone il volto, segnandola nell’anima in modo indelebile. Ore 23 circa del 12 novembre 2019: la furia della marea unita alle raffiche di libeccio e scirocco a centodieci chilometri orari si abbattono sulla città devastando tutto quanto trovano davanti.
A differenza di 53 anni fa le immagini girate dagli smartphone stavolta fanno il giro del mondo in pochi minuti. Tutti possono vedere il dramma di una città in ginocchio: i vaporetti sollevati e schiantati in Riva degli Schiavoni, un motoscafo trascinato per centinaia di metri in calle delle Rasse, la cripta della basilica di San Marco in balia delle onde, le porte in cristallo dell’hotel Gritti incapaci di fermare i fiotti d’acqua che invadono la hall dell’albergo, l’edicola alle zattere sradicata dalla fondamenta e inabissata nel canale della Giudecca, i preziosi volumi custoditi al conservatorio B. Marcello immersi nell’acqua salata. Poco più in là la mareggiata travolge le abitazioni di Pellestrina e uccide un residente. Tutti frame di un film da incubo. Il “day after”, un sole che ferisce squaderna le dimensioni del disastro. Ci vorranno settimane per stimare i danni alle cose, alle case, ai monumenti, ai negozi, ai masegni della Serenissima. “Per la prima volta, da veneziano, l’acqua mi fa paura”, confessa il regista Giovanni Pellegrini nel suo lungometraggio “La città delle sirene”, che documenta il disastro del 12 novembre.
E’ passato un anno giusto da quella terribile notte. Oggi, quella “tempesta perfetta” farebbe molta meno paura, e non seminerebbe più distruzione. Il 3 ottobre scorso, mentre il maltempo flagellava il Nord Italia e l’alta marea insidiava ancora una volta Venezia, le paratoie del Mose finalmente si sono sollevate dal fondo della laguna per proteggere la città dal picco d’acqua alta. E piazza San Marco è rimasta “magicamente” all’asciutto. C’è chi ha pianto di gioia e chi ha provato rabbia pensando che quanto accaduto si sarebbe potuto risparmiare a Venezia e al mondo.
C’è voluto il ciclone che ha fatto scempio della città più bella ma più fragile per imprimere l’ultima accelerazione necessaria alla conclusione dei lavori (che peraltro non sono ancora del tutto finiti). Il Mose s’è alzato, sì, ma ci sono voluti quarant’anni dalla prima decisione di usare dighe mobili alla difesa a mare della città e poi 17 per realizzarlo e sette miliardi d’investimenti, cifra gonfiatasi a dismisura nel tempo, e ancora inchieste giudiziarie, tutt’ora in corso, su corruzioni, consulenze e mazzette che ammontano a un miliardo di euro (sì avete capito bene: un miliardo), guasti e riparazioni ancor prima del primo collaudo, con la ruggine che ne sta già corrodendo i cassoni posati sott’acqua. Perfino il Patriarca Francesco Moraglia ha stigmatizzato su questi tempi intollerabilmente eterni.
Ma la comprensibile gioia stampata sul volto dei veneziani che vivono e lavorano in centro storico fotografata un mese fa s’è già trasformata in nuova apprensione e in facce preoccupate. All’emergenza ambientale, ora probabilmente arginata dal Mose, s’è aggiunta quella sanitaria e quanto era stato risparmiato dalla prima ondata di marea è stato travolto dalla crisi dovuta al lockdown e alla pandemia. Se l’anno scorso tre giorni su sette s’è verificata un’acqua alta, la crisi causata dal covid ha causato la chiusura sette giorni su sette di tantissimi esercizi e attività. Basta girare un po’ per le calli e i campielli veneziani, fino al carnevale scorso brulicanti di turisti, per rendersi conto della recessione paurosa in corso: negozi sfitti, serrante abbassate, caffè, locande ed alberghi tristemente chiusi, B&B in vendita, “cedesi attività” affissi ad ogni angolo. In piazza San Marco denuncia l’associazione omonima oggi sul giornale che il 30% delle attività ha chiuso. Non sospeso. Chiuso per sempre. Tutti i caffè storici intanto sono chiusi fino ai primi di dicembre. Nel Veneziano gravitano circa 50 mila lavoratori dell’indotto turistico di cui uno su dieci è a casa senza alcun ammortizzatore sociale. Tanti altri sono in cassa integrazione. Lo stesso dicasi per i lavoratori dei tanti enti culturali. I turisti non arrivano. Musei e mostre sono chiusi. Anche il turismo mordi e fuggi è scomparso. A mordere sono solo i debiti, le pigioni dei negozi da pagare, i mancati introiti per attività commerciali sospese. Ci mancava soltanto l’infiltrazione della criminalità organizzata che pare aver approfittato della pandemia per aprire una cinquantina di partite iva in città nel settore turistico e dei servizi nei cinque mesi del lockdown. Ma, si sa, neanche la pandemia ferma le infiltrazioni mafiose.
Un anno dopo, Venezia, salvata dalle acque, potrebbe annegare per il virus.
(il film “La città delle sirene” di Giovanni Pellegrini è visibile sul canale youtube di Ginko Film e di quello dell’Università Ca’ Foscari dalle 18 alle 24)