Da un po’ di tempo se ne parla con insofferenza, come se l’Europa fosse un vecchio, rompiscatole, maestro troppo severo e passato di moda. Un’entità astratta e lontana e non il luogo, non solo fisico, in cui abitiamo. Pensiamo, sbagliando, all’Europa come a una istituzione non finita e non sentita, e non anche e soprattutto come alla culla delle nostre radici.
Poi un giorno, uno dei tanti, ci entra in casa dagli Stati Uniti la scena raccapricciante di un condannato a morte che si risveglia dalla sedazione durante l’esecuzione, ci arriva la notizia della sua lunga agonia, ci arriva l’orrore di chi stava assistendo all’esecuzione.
Chissà se, prendendo atto della barbarie all’ora di cena, qualcuno di quelli che hanno fretta di archiviare l’Europa come un fastidio si è chiesto da dove vengano il disagio che proviamo davanti a quella notizia e insieme il sollievo di sapere che è altro da noi?
Chissà se sanno, quelli che cavalcano populismi antieuropeisti, che l’Europa è uno dei pochi posti al mondo (in giallo sulla cartina) in cui è da tempo pacifico che uccidere un uomo non è un modo di rendere giustizia, in cui il verbo “giustiziare” non ha coniugazione nella vita quotidiana, in cui a nessun cittadino si chiede di assumersi l’ingrato compito di fare il boia.
Possiamo rinnegare l’Europa, possiamo non aver letto Cesare Beccaria e il suo Dei delitti e delle pene che compie 250 anni quest'anno, ma l’orrore che proviamo davanti a quella notizia americana è la prova che Beccaria e l’Europa ci hanno segnati dentro con la loro cultura del diritto: consapevoli o meno, ne siamo tutti figli, magari degeneri, ma innegabilmente figli.
Ecco, forse, prima di far passare l’idea che sia cosa buona e giusta mandare al macero l’Europa, faremmo bene a ripassare la storia e la geografia, a non dimenticare che, in materia di diritto e di diritti, l’Europa è ancora uno dei luoghi migliori in cui augurarsi di nascere. E non sarebbe male se lo conservassimo tale anche per i nostri nipoti.