Non esiste ma tutti credono sia presente ovunque. Paradosso? Quesito della Sfinge? No, solo il risultato di un’epoca, la nostra, questa. Cos’è? È l’immigrazione, la contraddizione più stridente della società globalizzata, che a tutti offre una possibilità di andare e migliorare ma poi fa scattare la tagliola; così, chi dovrebbe accogliere sospetta che a ogni arrivo venga tolto qualcosa.
È il risultato più elementare e conseguente del nostro Medio Evo quotidiano, quello in cui viaggiamo anche da fermi, grazie a tecnologie possibiliste e futuribili, ma se poi c’è chi lo fa su un gommone gridiamo inorriditi. Il mondo è sempre più dinamico da un lato, immobile dall’altro.
Si parte, anche perché non è più vero che “un po’ è anche morire”, anzi, e perché si sa cosa si lascia, e basta, senza seguito. E questo vuol dire che ancora oggi c’è chi vive di speranza, parola leggera ed esile come carta velina. Parola scritta sull’acqua del mare che ingoia i truffati e i respinti.
Che senso abbia parlare di immigrati quando si spinge l’economia verso la globalizzazione, non si capisce. Eppure la realtà è sotto gli occhi di chiunque. Basterebbe vedere un po’ di sport, le Olimpiadi per esempio, e scoprire keniani che corrono e vincono per la Danimarca, svedesi neri, sudafricani bianchissimi, tedeschi dal cognome turco.
Finiti i tempi in cui un colored vinceva a Wimbledon tra facce perplesse, ormai un ricordo della memoria i cartelli di Torino e Milano con la scritta “Non si affitta a meridionali”, esaurite le richieste di pummarola dall’Italia per chi stava dall’altra parte dell’Oceano, che altro resta per avere consapevolezza di ciò che siamo? Dovremmo dire: siamo fratelli. Puntualizziamo: siamo differenti. Come se essere differenti non fosse un pregio, un omaggio alla fantasia e alla creatività, al coraggio di non stare per sempre in fila per tre, come diceva una canzonetta anni Settanta.
C’è voglia di modernità, ma solo per noi; c’è esigenza di serenità, ma soltanto per chi sta dalla nostra parte che intanto e proprio per questo diventa sempre più piccola, ristretta, finendo per restringere anche la mente di chi pensa che tutto quello che è diverso va cacciato. Una trasposizione a colori di “tutto quello che si muove, tu spara”.
Ma almeno quelli erano solo film, anche se raccontavano storie di frontiera. Appunto: frontiere, confini, barriere, limiti. Sta tutto nelle nostre menti, non fuori. Spezzare le barriere è coraggioso, è voglia di vivere, credere nel dopo, nel domani, in chi verrà, nei figli dei figli. In un film italiano degli anni Ottanta, i fratelli Taviani chiarivano cos’è stato l’orgoglio di sentirsi italiani fuori dalla propria patria.
Il film è Good morning Babilonia. I protagonisti, due fratelli toscani scultori, emigrati a Hollywood all’inizio del Novecento, hanno un momento di rabbia. Una loro scenografia viene bocciata esteticamente e loro, a quegli americani che li hanno giudicati sprezzantemente rispondono, più o meno così: “Noi siamo i figli dei figli dei figli di Michelangelo e Leonardo. E voi di chi siete figli?”.
Oggi noi sembriamo aver dimenticato di chi siamo figli. E i nostri padri secolari non sarebbero felici di noi e delle nostre paure. Eppure, se l’immigrazione non esiste più, per lo meno nei termini storicamente conosciuti, perché esistono i razzisti? Perché hanno paura, evidentemente. Di perdere un’enorme stampella che li ha sorretti finora. Però una vera differenza tra individui, sì che si può fare, e dividere il mondo in due: da una parte c’è chi ha sempre bisogno di un nemico da combattere, un fantasma da sconfiggere, un diverso da mostrare col dito puntato a minaccia. Dall’altra, c’è ancora chi non lo crede possibile. Basta solo schierarsi per sapere da che parte si sta.