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La crisi a tutti evidente è una scusa valida per non pagare le tasse? La tentazione dell’uomo della strada di tradurre in questa domanda la sentenza del Tribunale di Milano che assolve un imprenditore dall’accusa di omesso versamento dell’Iva è forte, ma rischiosa. Come sempre le cose sono un po’ più sottili e complicate e, come sempre, quando si parla di una sentenza, si fa riferimento a un caso specifico, cui si contesta un reato specifico. La conclusione che vale per quel caso potrebbe non valere per altri simili ma non identici.
La domanda giusta da farsi è: il signor A, nelle circostanze X e Y, ha commesso il reato che gli viene contestato?
Al momento sappiamo soltanto che il giudice l’ha assolto «perché il fatto non costituisce reato», che altri casi di assoluzioni ci sono stati negli ultimi mesi in giro per l’Italia per imprese in fallimento e per imprenditori che avevano dimostrato di non aver pagato imposte su pagamenti in ritardo non ricevuti al momento della scadenza con il fisco, ma le motivazioni della sentenza di Milano non ci sono ancora e quindi possiamo riflettere solo su aspetti generici.
Quello che sappiamo è che il signor A doveva all’erario 180.000 euro, che non li ha versati e che la sua azienda è in grave dissesto economico.
Il tema dei reati di omesso versamento di ritenute certificate e di Iva fa discutere i giuristi a partire dal 2004 da quando cioè il primo dei due commi in questione - 10 bis e 10 ter - è stato aggiunto alla Legge sui reati tributari (Decreto legislativo n. 74/2000).
Sappiamo che per il Codice penale: «Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà». Quando si tratta di un delitto (ed è questo il caso) è necessario che sia stato commesso con dolo. Sappiamo anche che «Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore». Dentro questa forbice, ampia, sta il ragionamento del giudice.
Ma, come si è detto, dalla metà degli anni duemila a oggi i giuristi hanno dibattuto su come interpretare quella legge che sanziona chi non paga, anche emettendo giudizi contrastanti tanto da richiedere un intervento a sezioni unite della Cassazione, depositato il 12 settembre del 2013. Nel dispositivo (n. 37424 del 28 marzo 2013) si legge che: «Non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipende dalla scelta di non fare debitamente fronte alla esigenza predetta».
Tradotto in soldoni significa che, per invocare cause di forza maggiore, la crisi da sola non basta né è sufficiente dimostrare di non avere i soldi in cassa alla scadenza. E’ necessario, quantomeno, provare che chi non ha pagato ha fatto tutto il possibile onorare il proprio debito con lo Stato e che non ha trascurato, per propria scelta, di accantonare il dovuto per l’Iva, a tempo debito, cioè al momento in cui gli sono state pagate prestazioni e forniture o quando ha trattenuto il corrispettivo dell’Iva dalle retribuzioni.
Va detto anche che se l’assoluzione mantiene pulita la fedina penale, non cancella il debito con il fisco: chi non ha pagato è normalmente tenuto a saldare il dovuto con gli interessi.