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Sindaco di Padova da pochi giorni, il leghista Massimo Bitonci, ha pensato di avviare la sua amministrazione con una bella crociata sui socialnetwork contro l’islam. Nel giro di 48 ore, prima ha postato su Fb il proclama che non saranno più date autorizzazioni per la celebrazione del Ramadan nelle palestre comunali. Subito dopo ha twittato: “Ora in tutti gli edifici e le scuole un bel crocifisso obbligatorio, regalato dal comune. E guai a chi lo tocca!”.
L’onorevole non è nuovo a sparate del genere: in passato se l’è presa coi rumeni tutti ladri, contro la negritudine, i kebabbari, financo i mendicanti; e da sindaco di Cittadella aveva cercato di introdurre il reddito minimo al di sotto del quale non si poteva ottenere la residenza. L’ex-sindaco di Treviso, lo "sceriffo" Giancarlo Gentilini lo ha riconosciuto, non a caso, come suo degno erede.
Complimenti signor sindaco. Se voleva rassicurare il suo elettorato e accattivarsi le simpatie di qualche intollerante, l’iniziativa ha avuto successo. Nutriamo qualche dubbio, invece, che ciò serva davvero a far crescere la coesione di una comunità che accoglie nel suo seno tanti stranieri, anche di fede islamica: lavoratori, che pagano le tasse, famiglie che iscrivono i loro figli nelle nostre scuole, che imparano l’italiano, che mangiano la pizza e che hanno tifato azzurro fino alla fine della sciagurata partita con l’Uruguay.
Nella provincia di Padova i migranti residenti sono quasi 90 mila, e tra questi non pochi sono seguaci del Corano. Pregano e osservano i dettami della loro fede, proprio come fanno i cristiani praticanti. E se non potranno entrare più in una palestra, quale sistemazione alternativa propone loro? Non lo abbiamo ancora capito. Vogliamo credere che ci stia pensando.
Non è forse vero che il primo cittadino, una volta eletto, dovrebbe dimenticarsi di essere uomo di parte (partito), e essere sindaco di tutti suoi concittadini? Nella stessa parola “sindaco” è composta dalla preposizione “syn” che sta per “insieme”. E allora perché compiere gesti escludenti dalla comunità e non includenti che, cioè, mettono “insieme”? Perché soffiare sulle braci mai spente del pregiudizio nei confronti di chi non è dei nostri? Perché rischiare di alimentare lo scontro, sempre latente, tra culture, dentro una società che già fatica molto a vivere il meticciato delle genti? Chi non genera comunità, crea il ghetto, signor sindaco. Non ci sono terze vie. Il resto è demagogia di bassa… lega.
Il “bel crocifisso obbligatorio” è l’altro cinguettante capolavoro postato da Bitonci. Come se le sorti e la difesa dei valori cristiani, della tradizione, dell’identità culturale occidentale e chi più ne ha più ne metta, fossero davvero affidate alla solidità del chiodo cui è appeso quel simbolo in legno dentro un’aula scolastica o di tribunale. Bastasse questo.
La scristianizzazione e la secolarizzazione avanzano perché le comunità cristiane hanno staccato la croce, non dai muri, ma dalle loro vite, dai loro volti e per questo sono diventate trasparenti, insignificanti. Incapaci di mostrare al mondo lo scandalo-grazia del Crocifisso con la “C” maiuscola. La testimonianza di fede non passa per l’obbligo di legge, ma per la proposta gioiosa, e scomoda insieme, di chi ha sperimentato la bellezza del Vangelo che gli ha cambiato la vita. Che poi, a guardar bene, è proprio quanto papa Francesco va ripetendo: sì alle comunità “ferventi”, che “danno fastidio”, inquietano; e no “ai cristiani da salotto”, anche se sulla parete sta un crocifisso, aggiungiamo noi. Lo ha ben espresso suor Barbara, rispondendo al suo tweet: “Ma no, signor sindaco. Troppo facile. Gesù non si impone”. Anche perché, se le sentenze che ordinano di schiodare i crocifissi dalle scuole, come scriveva Claudio Magris di recente, “fomentano i peggiori clericalismi”, imporne sempre la presenza sui muri, come vorrebbe lei, scatenerebbe solo i più ostinati laicisti e le guerre di religione. Il Cristo in croce ha la forza di parlare a ogni uomo anche se non cristiano, perché è “il volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta”, come scrive l’intellettuale triestino. Che cosa possa c’entrare, allora, il “bel crocifisso obbligatorio” ce lo spieghi, per favore, signor sindaco.
In breve: non sentiamo proprio il bisogno di questi spot pro-cattolicesimo proselitista, grazie. E poi, proprio quella croce, che lei vuole imporre negli uffici postali, con quelle braccia aperte chiama solo a far comunione, all’abbraccio fraterno, alla condivisione di ogni povertà e solitudine. Al dialogo con tutti. Anche con quegli oranti così poco ortodossi che frequentano l’altrettanto poco ortodossa sala di preghiera, in questo siamo d’accordo con lei, che è la palestra di via Sarpi.
Insomma, caro sindaco, ci era decisamente piaciuto di più il 13 giugno scorso, festa di Sant’Antonio, quando ebbe a dire: “Ricordiamoci di mantenere sempre aperti il nostro cuore e, con esso, le porte di Padova”. Lei ha richiamato la lezione del grande Santo patavino, che fu anch’esso un migrante. Il problema è che se l’è dimenticata il giorno dopo. Quando si dice: “passata la festa, gabbato lo santo”.