Ogni incontro-evento dei vari festival prevede un personaggio solitamente noto (scrittore, filosofo, artista...) e un intervistatore. L'atmosfera è piacevole: centinaia di persone si sono riunite per vedere e ascoltare il loro "divo" culturale. Un applauso scrosciante accoglie il suo ingresso sul palco. L'ospite si accattiva la simpatia del pubblico con qualche battuta, accolta prontamente da risate compiaciute e convinte. Anche l'intervistatore si sforza di creare un clima festoso e divertente, anche lui si lancia in qualche battuta, smorfie, espressioni buffe.
Così accade, talvolta, che per strappare un applauso o una risata in più, ci si lasci andare, si superi il limite dell'eleganza, ci si dimentichi che, pur nell'allegria, si sta facendo cultura, si sta discutendo di cose "serie". Ecco allora che per rompere il ghiacco o per conquistare la platea si ricorre anche a parole di cattivo, gusto, parolacce che non staremo qui a ripetere ma che, di certo, nulla hanno a che spartire con un festival culturale.
Il punto è questo: l'incontro non avviene nel salotto di casa, dove ciascuno, rispondendo alla propria coscienza e al proprio senso dell'eleganza, parla come vuole. Autore, presentatore e ascoltatori sono in un luogo pubblico, dove si sta tentando di ragionare, confrontare idee, approfondire questioni. Che bisogno c'è di scadere, di indulgere a un linguaggio triviale?
Qualcuno potrebbe dire: ormai tante espressioni sono entrate nel gergo comune, quelle "parolacce" sono le stesse che chiunque userebbe in pizzeria con i suoi amici... Forse è così, probabilmente tutti usiamo un linguaggio più o meno scurrile e volgare - e non è detto che sia una bella cosa -, di sicuro, però, l'utilizzarlo in una dimensione pubblica, in una manifestazione che aspira a diffondere la cultura, è fuori luogo e di cattivo gusto. E che la concessione a un gergo di basso livello venga da chi dovrebbe farsi mediatore della cultura, non è che un'aggravante.