Nel dibattito pubblico di questi giorni emerge in maniera ricorrente una domanda, che ha a che fare col senso dell’esistenza nel periodo drammatico che stiamo vivendo: perché le chiese (anche le sinagoghe e le moschee) sono aperte e i luoghi della cultura (cinema, teatri, musei, sale di concerto…) no? Una prima riflessione riguarda il sospetto che la sfera religiosa, in particolare quella cattolica, goda di privilegi rispetto ad altre espressioni della vita sociale del Paese. Proprio perché non solo le chiese cattoliche a svolgere, nel rispetto delle norme anticovid, il culto, mi sembra che l’obiezione possa facilmente essere contestata a sua volta. Piuttosto si riconosce l’imprescindibilità della dimensione trascendente dell’esistenza, che ha bisogno di esprimersi nel rapporto non solo individuale con Dio, ma anche comunitario e interpersonale. È insomma la dimensione religiosa una struttura fondamentale dell’umano, che va custodita e salvaguardata, ma mai a scapito della salute delle persone. “Non di solo pane vive l’uomo…”.
In secondo luogo, l’obiezione sottintende un divario tra fede e cultura, che man mano si va sempre più rappresentando nella koiné laicista del nostro Paese. È il nostro stesso credere che ci chiede di insistere perché, prima ancora che bar, ristoranti o sale giochi, si riaprano i luoghi in cui le nostre ferite possano essere lenite dalla contemplazione e dall’esperienza del bello, Né possono bastare esperienze suggestive come i concerti in ambienti da cui è assente il pubblico. E non mi riferisco a Sanremo, ma, tra le altre, alla recente esibizione di Federico Poggipollini a Casalecchio (Bologna) con il titolo suggestivo e provocatorio: “The sound of silence”. Un “suono del silenzio” che raggiunge la nostra interiorità ed ospita la domanda fondamentale sul perché ci sta accadendo tutto questo. Sarebbe del tutto fuori luogo intraprendere una battaglia culturale ponendo l’alternativa fra chiese e teatri. Del resto, originariamente la rappresentazione teatrale (pensiamo alla tragedia greca) era un vero e proprio culto.
Infine, proprio perché non si può determinare una radicale contrapposizione tra fede e cultura, bisogna che comprendiamo fino in fondo che “il culto è cultura”. Un popolo senza culto è un popolo senza cultura, ma, se leggiamo attentamente la storia dell’umanità, scopriamo che non esistono popoli senza culto e che la loro cultura si esprime in primo luogo nel culto. E i termini hanno a che fare con la coltivazione di quel terreno che è l’umano. Del resto, papa Francesco insiste sul carattere mitico del popolo. «“Popolo” non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica, semmai. Ripeto: “mitica”. Popolo è una categoria storica e mitica. [...] Ci vuole un mito per capire il popolo». E poiché ciò che caratterizza l’esistenza, non è l’essere, ma l’abitare, come sostiene il pensatore Rodolfo Kusch, al quale si ispira il pensiero del Papa su questo argomento, mentre continuiamo ad abitare le nostre città, i nostri borghi, le nostre campagne e non solo le nostre case, nei nostri condomini, allorché usciamo per respirare, troviamo il luogo del culto, con una comunità viva, pronta ad accoglierci e a far sì che possiamo pregare insieme il Signore della vita.
Credo che la tragica situazione pandemica che stiamo vivendo possa condurci a riflettere ed apprezzare quelle tre dimensioni dell’umano e del divino, che si intrecciano e si rincorrono e a vivere nostalgicamente la mancanza di quelle interdizioni che ne limitano la fruizione. Il bene, innanzitutto, che si manifesta nel benessere e nella salvaguardia della salute nostra e degli altri. Il bello (quella che Hegel chiamava la “fragile bellezza”), che ci chiede non solo di attendere, ma anche di auspicare e per quel che possibile anticipare l’esperienza estetica, che ospita la traccia dell’Infinito. Non è infatti la stessa cosa ascoltare un cd o un concerto dal vivo, vedere un quadro su internet o in una mostra… Infine il vero, che ci vede impegnati nell’attenzione alla scuola e alla didattica. Tutto questo il culto lo racchiude in sé e ce lo consegna a sostegno della nostra fragilità.