Alessandro Preziosi nella fiction su don Diana.
La tendenza in atto in Rai e, in parte, pure in Mediaset di proporre al grande pubblico fiction che ricordino figure importanti della nostra storia o che raccontino temi d'attualità come la lotta alla criminalità organizzata è senza dubbio encombiabile. Ma c'è ancora un pezzo di strada da compiere: se sul contenuto di questi prodotti non c'è nulla da eccepire, la forma presenta invece ancora ampi margini di miglioramento.
Prendiamo, per esempio, due fiction andate in onda di recente su Rai 1: "Il giudice meschino" e "Don Diana: nel primo caso, le premesse per un buon prodotto c'erano tutte: il bel romanzo omonimo di Mimmo Gangemi da cui è tratto, il tema, il traffico di sostanze radioattive, quanto mai d'attualità e la coppia di attori protagonisti, Luca Zingaretti e Luisa Ranieri, coppia anche nella vita vera. Eppure è venuto fuori una fiction prolissa, in cui l'evoluzione interiore del personaggio è sviluppata molto frettolosamente e dove gli stessi attori, pur bravi, apparivano vistosamente fuori parte.
Venendo invece a "Don Diana", c'era il rischio che si corre in tutti i casi in cui il protagonista della fiction è stato un uomo eccezionale: cioè renderlo ancora più eccezionale, senza nemmeno accennare ai suoi difetti e quindi, in definitiva, rendendolo meno "umano", più finto. Questo rischio è stato quasi del tutto evitato nella prima puntata, mentre nella seconda la retorica ha finito per prevalere sull'asciuttezza del racconto, con un ampio ricorso a "scene madri" concepite solo per provocare la lacrima facile, a scapito della verosimiglianza. Alessandro Preziosi, poi, ce l'ha messa veramente tutta, però l'assoluta mancanza di somiglianza fisica con il vero don Diana alla fine ha nuociuto al realismo dell'opera.
Cosa che invece non è accaduta con un'altra fiction andata in onda poche settimane fa, "Non è mai troppo tardi" in cui Claudio Santamaria è stato un credibilissimo maestro Manzi. Non è un caso che dietro la macchina da presa, in questo ultimo caso, ci fosse Giacomo Campiotti, lo stesso regista di "Braccialetti rossi", il caso televisivo di questa stagione. Gli straordinari ascolti di questa fiction si spiegano innanzitutto con il realismo con cui una situazione dolorosa, quella di un gruppo di ragazzi costretti a vivere a lungo in ospedale, è stata raccontata.
Nulla ci è stato risparmiato: dall'adolescente che si guarda
allo specchio dopo che gli è stata amputata una gamba, al suo compagno
di stanza che soffre durante una seduta di chemioterapia, alle crisi di
una ragazza anoressica, fino alla morte straziante di uno di loro. Ma
soprattutto questi ragazzi e gli adulti che ruotavano attorno a loro
sono stati mostrati con tutte le loro debolezze e fragilità: sono stati
egoisti, vendicativi, ingrati. E proprio per questo i giovani, che di
solito stanno alla larga dalle fiction, sono accorsi in massa a vedere
"Braccialetti rossi".
Quindi, in definitiva, non si tratta di scopiazzare le fiction straniere
più acclamate come "Downton Abbey" o "Lost": noi siamo diversi e poi
tutta questa mitologia sulla qualità dei telefilm americani molto spesso
è solo indice di snobismo. Anche Oltreoceano si producono obbrobri.
Però una maggiore cura nella sceneggiatura e nella scelta degli attori è
giusto pretenderla. Il pubblico televisivo è molto cambiato e i buoni
sentimenti da soli non bastano più.