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martedì 15 ottobre 2024
 
Morti bianche
 

Ma questo è lavorare per vivere o per morire?

03/05/2023  Oltre due morti sul lavoro al giorno. Le statistiche dell'Inail ci dicono che nei primi 90 giorni del 2023 sono già periti nel nostro Paese 196 lavoratori, più 3,7% rispetto allo stesso periodo del 2022. Le "morti bianche" sono uno dei paradossi più terribili del nostro tempo: si continua a perdere la vita nonostante legislazioni e contratti lavorativi avanzati e tutelanti. Come mai?

Morto il giorno dopo il Primo maggio, Festa dei lavoratori. Marco Meiattini, operaio agricolo, ha perso la vita precipitando nel vano del montacarichi, mentre stava spostando alcuni bancali con un muletto all’interno della cantina di Barberino Valdelsa.  Aveva 55  anni, ed abitava a Scaggia, nel Comune di Poggibonsi. Lascia la compagna e un figlio di 17 anni. E’ l’ennesima morte “bianca”, l’ennesima vittima che va ad aggiungersi alla già lunghissima lista di chi è deceduto sul lavoro. E domani al suo nome se ne aggiungeranno altri due. Ce lo dice il bollettino trimestrale dell’Inail, che registra denunce d’infortunio e morti sul lavoro: ebbene, nei primi tre mesi dell'anno sono morte sul lavoro 196 persone: appunto oltre due al giorno. Un dato in aumento del 3,7% rispetto allo stesso periodo del 2022, quando le vittime erano state 189. Si tratta del numero di morti più alto dal 2019, quando i decessi sul lavoro nei primi tre mesi dell'anno furono 212.

    Nel 2022 complessivamente  gli infortuni mortali sono stati 1.090, pochi di meno del 2021 quando si arrivò a 1.221 i morti (dati Inail).  A questi si dovrebbero aggiungere tutti quelli “ignoti”, perché avvenuti nella zona d’ombra del lavoro nero, un “sommerso” che, dai campi di pomodori ai cantieri edili,  spesso moltiplica le vittime per carenza di tutele e sicurezza. Morti ammazzati, più che per incidente, dovremmo dire. I settori più colpiti sono sempre gli stessi: l'agricoltura (con il 30% di tutti gli incidenti mortali sul lavoro), l'edilizia, con il 15% delle morti e l'autotrasporto con 11%.

       Ma nel nostro Paese si può morire di lavoro, senza ancora essere lavoratori, com’è avvenuto nel gennaio del 2022 in un’azienda di Udine dove ha perduto la vita lo studente diciottenne Lorenzo Parelli, colpito al capo da una putrella d’acciaio. Il diciottenne era in fabbrica, al suo ultimo giorno di stage per un progetto d’alternanza “scuola-lavoro”. Proprio il suo nome è stato ricordato dalla testimonianza toccante dei genitori all’ultimo Concertone del Primo Maggio A Roma.

   E si muore sempre di più, tutti i giorni,  anche questo lo dicono le statistiche, ancor prima di arrivare al posto di lavoro, o appena dopo esserne usciti: si muore per strada, in auto. Nel gergo tecnico-giuridico si dice “in itinere”,  usando un latinismo che addolcisce la forma, ma non la sostanza. Sempre di morte per lavoro si tratta. Di quei 1.090 infortuni mortali contati nel corso del 2022, 300 sono stati quelli rilevati “in itinere”, in significativo aumento (+21%) rispetto al 2021.

   Così è deceduta l’infermiera Sara Sorge a soli 27 anni, schiantandosi con l’auto contro un palo della luce, un anno fa. Stava tornando a casa dopo il suo turno di lavoro: due notti consecutive in reparto nel centro di riabilitazione di Ceglie Messapica in cui prestava servizio da poco più di due settimane. Aveva messaggiato al fidanzato prima di mettersi in viaggio: “Ho finito ora. Sono stanca morta”.  Appunto. Ancora una volta turni estenuanti, carichi di lavoro durissimi per far fronte a carenze di personale, aggravate dalla pandemia che “ammazzava” anche senza collassare i polmoni dal contagio. Perché in emergenza saltano turni e ferie e chi c’è è costretto a fare anche per chi non c’è. Nelle corsie d’ospedale, come negli ambulatori, nelle case di riposo, come nei Pronto Soccorso. Per rimanere nell’ambito dei servizi socio-sanitari. Ma anche oggi, nel post-covid, quanti dipendenti, in tanti altri settori, si trovano ad operare in situazioni di super-lavoro, carenza di personale, riposi saltati, sotto stress ambientale, o ricatto padronale?     

   Le chiamano “morti bianche” come se fossero senza diretti responsabili, mere fatalità di un destino cinico e baro. E’ uno dei paradossi più evidenti e insieme incomprensibili del nostro tempo: nell’epoca dei diritti garantiti e delle legislazioni che tutelano come non mai le condizioni dei lavoratori e la loro sicurezza, dopo stagioni di lotte sindacali e conquiste sociali che hanno sancito regole chiare e contratti in molti casi avanzatissimi, mai come oggi si assiste nel nostro Paese ad un deterioramento generale delle condizioni di lavoro. Non si salva nessuno e nessuna categoria. Basta parlare con un insegnante per capire cosa significhi lavorare in una “classe pollaio”; basta avere un figlio che abbia provato a fare, anche solo per un mese, il rider o l’operatore in un call-center, per aprire gli occhi sullo sfruttamento e la precarietà dei lavoratori “atipici” falsamente autonomi e veramente privi di ogni tutela sindacale; basta conoscere chi fa il magazziniere in un grande impianto di logistica, sorvegliato digitalmente, per garantire il consumo istantaneo dei clienti; o incrociare chi lavora in edilizia e s’arrampica sulle impalcature senza protezione, perché lavora in una ditta in sub-subappalto; per non andare a vedere in certe zone agricole d’Italia, del Sud, ma anche del Nord, dove per garantirci i pomodori in tavola a prezzi stracciati e sostenere la nostra filiera alimentare, qualche schiavo, che in genere non parla la nostra lingua, si massacra nei campi a due euro l’ora.

   Nei libri di storia i lavoratori delle miniere dell’800 erano l’emblema dello sfruttamento, delle condizioni disumane e di pericolo di vita.  Oggi, senza quasi accorgercene, dentro le nostre città, nuove “miniere” senza cunicoli e pozzi inghiottono impiegati, operai, prestatori d’opera con o senza partita Iva.  Com’è possibile? Ovunque si risparmia sulla qualità dei servizi e sulla pelle degli operatori. Così nell’epoca del lavoro “smartizzato”, che dovrebbe significare “agile”, intelligente,  promesso dalla rivoluzione digitale, ci troviamo a dover allungare la lista dei lavori usuranti e gravosi. Negli anni ’70 del secolo scorso andava in voga lo slogan vetero-sindacale  “lavorare meno, lavorare tutti”, che magari sarà stato troppo semplicistico, ma oggi siamo finiti col lavorare troppo, e non proprio tutti. Anzi molti di meno. E con qualcuno che continua ancora a rimetterci la vita.

 
 
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