È stato uno dei più grandi direttori d’orchestra della storia. Ma anche uno dei più discussi: Lorin Maazel è morto a 84 anni in seguito alle complicazioni di una broncopolmonite. Qualche settimana fa aveva annunciato il ritiro dall’attività per problemi di salute. Presentando la stagione 2014-2015 della Scala il nuovo sovrintendente Pereira lo aveva però inserito nel cartellone, assicurandone la presenza. Perché alla Scala, alle orchestre italiane, al pubblico delle nostre istituzioni, Maazel ha dato molto.
Nato a Neully-sur-Seine, il quartiere di Parigi fra il Bois de Boulogne e la Defense, da genitori statunitensi, imparò il violino da bambino. E, come raccontava, si impegnò moltissimo per dimostrare di essere migliore della sorellina. Fu un bambino prodigio in tutto. Come violinista e poi come direttore: debuttò a 9 anni e poco dopo venne invitato da Toscanini che lo considerava un «benedetto dal cielo». Già giovanissimo era un modello per gli studenti di direzione del Conservatorio di Parigi che assistevano ai suoi concerti: ma la sua tecnica straordinaria - sempre a suo dire - era frutto della sua pigrizia: «Più si è bravi tecnicamente, meno si deve provare», spiegava.
Aveva una memoria prodigiosa ed era uno dei pochi direttori a conoscere ogni nota, ogni pausa delle partiture per davvero. Si esercitava leggendo i giornali: prendeva una pagina dalla prima all’ultima parola e poi la ripeteva, anche al contrario. Difficile dire in cosa eccelse perché il suo repertorio sconfinato, nella lirica come nella sinfonica, è stato, secondo i suoi detrattori, il frutto di uno stile molto analitico ma poco personale. In realtà, Maazel ha diretto bene moltissimi autori, ma con un limite. Da vero uomo d’affari, si è sempre confrontato con il mercato della musica e ha accettato di buon grado di essere un nome di richiamo, talvolta scendendo a compromessi con la qualità delle orchestre e con la limitatezza delle prove, forte di quella tecnica e di quell’esperienza smisurata che gli permettevano comunque di portare a casa un risultato artisticamente accettabile.
Quando invece s’impegnava, quando dirigeva Beethoven, Mahler, Wagner con la serietà che la sua statura imponeva, allora i risultati erano sublimi. Alla Scala e in Italia ha diretto di tutto. Una volta si presentò alle prove della Filarmonica scaligera: era appena arrivato da Vienna. Disse agli orchestrali di aver dimenticato la bacchetta, prese una matitae attaccò la Quarta di Beethoven. La fece suonare tutta e poi, sempre a memoria e senza partitura, corresse gli errori che aveva rilevato durante l’esecuzione. In pochissimo tempo l’orchestra fu pronta per una grande esecuzione.
Per il cinema Maazel aveva diretto il Don Giovanni con la regia di Joseph Losey. Ma c’era una cosa alla quale Maazel teneva più di qualsiasi altra, la composizione. E fra le sue composizioni quella più amata, più curata e di maggior successo fu l’opera 1984, tratta dal romanzo di Orwell. Quando la portò alla Scala ci disse che aveva voluto scegliere non un libro del Novecento, ma “il” libro del Novecento. E che aveva riversato nell’opera tutta la sua conoscenza della musica, tutto il suo amore, da Wagner alla canzone. E ci riuscì.
A chi gli chiedeva quale fosse la pronuncia corretta del suo cognome – Màzel o Mazèl – rispondeva «Lo - rin Ma –zè - el, proprio come l’attacco della Quinta di Beethoven, una sorta di predestinazione».