Il Papa ascolta profondamente commosso il dolore delle vittime che hanno subito stupri, violenze, che hanno assistito all’uccisione, feroce, dei propri cari, che sono stati costretti a mangiare la carne di altre persone rapite pena essere uccise a loro volta. Ciascuno mette sotto la croce il simbolo del male: il machete con cui è stata tagliata la testa del padre, il coltello con cui gli assassini hanno ucciso il resto della famiglia, la stuoia segno della brutale violenza che tante donne subiscono quotidianamente. Un gesto di perdono, possibile solo trovando la forza nella fede. Il Papa ringrazia per «il coraggio di queste testimonianze», dopo aver consolato, con abbracci e carezze chi ha provato sulla propria pelle «la violenza disumana». Anche solo ascoltando «si resta scioccati», dice Francesco, «e non ci sono parole; c’è solo da piangere, rimanendo in silenzio». Cita i luoghi da cui le vittime provengono: Bunia, Beni-Butembo, Goma, Masisi, Rutshuru, Bukavu, Uvira. Posti di cui «i media internazionali non menzionano quasi mai: qui e altrove tanti fratelli e sorelle nostri, figli della stessa umanità, vengono presi in ostaggio dall’arbitrarietà del più forte, da chi tiene in mano le armi più potenti, armi che continuano a circolare. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese, che non avrà pace finché la pace non sarà raggiunta lì, nella sua parte orientale».
Prima di assumere, insieme, l’impegno solenne di perdonare i carnefici, il Pontefice li incoraggia con la sua vicinanza e li rassicura: «Le vostre lacrime sono le mie lacrime, il vostro dolore è il mio dolore. A ogni famiglia in lutto o sfollata a causa di villaggi bruciati e altri crimini di guerra, ai sopravvissuti alle violenze sessuali, a ogni bambino e adulto ferito, dico: sono con voi, vorrei portarvi la carezza di Dio. Il suo sguardo tenero e compassionevole si posa su di voi».
Spiega che la Chiesa sarà sempre al loro fianco condannando «le violenze armate, i massacri, gli stupri, la distruzione e l’occupazione di villaggi, il saccheggio di campi e di bestiame che continuano a essere perpetrati nella Repubblica Democratica del Congo. E pure il sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese, così come i tentativi di frammentarlo per poterlo gestire. Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi». Non è un perdono che cancella il passato, ma un perdono che consola le vittime, innanzitutto, e apre vie per la pace. Questi conflitti, dice il Pontefice, «costringono milioni di persone a lasciare le proprie case, provocano gravissime violazioni dei diritti umani, disintegrano il tessuto socio-economico, causano ferite difficili da rimarginare. Sono lotte di parte in cui si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia: la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!». Chiede «a tutte le persone, a tutte le entità, interne ed esterne, che tirano i fili della guerra nella Repubblica Democratica del Congo, depredandola, flagellandola e destabilizzandola» e che si arricchiscono «attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti» di ascoltare «il grido del loro sangue» e di prestare «orecchio alla voce di Dio, che vi chiama alla conversione, e a quella della vostra coscienza: fate tacere le armi, mettete fine alla guerra. Basta! Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue!».
Il Papa dà anche indicazioni su cosa fare davanti a tanta violenza. E propone di «ripartire da due “no” e da due “sì”». No alla violenza, senza se e senza ma. Che significa dire basta all’odio, dire basta alle violenze soprattutto se perpetrate in nome di Dio. «Cari Congolesi, non lasciatevi sedurre da persone o gruppi che incitano alla violenza in suo nome. Dio è Dio della pace e non della guerra. Predicare l’odio è una bestemmia, e l’odio sempre corrode il cuore dell’uomo. Infatti, chi vive di violenza non vive mai bene: pensa di salvarsi la vita e invece viene inghiottito in un gorgo di male che, portandolo a combattere i fratelli e le sorelle con cui è cresciuto e ha vissuto per anni, lo uccide dentro».
Per dire davvero no «alla violenza», però, «non basta evitare atti violenti; occorre estirpare le radici della violenza: penso all’avidità, all’invidia e, soprattutto, al rancore. Mentre mi inchino con rispetto davanti alla sofferenza patita da tanti, vorrei chiedere a tutti di comportarsi come ci avete suggerito voi, testimoni coraggiosi, che avete il coraggio di disarmare il cuore. Lo chiedo a tutti in nome di Gesù, che ha perdonato chi gli ha trafitto i polsi e i piedi con i chiodi, attaccandolo a una croce: vi prego di disarmare il cuore. Ciò non vuol dire smettere di indignarsi di fronte al male e non denunciarlo, questo è doveroso! Nemmeno significa impunità e condono delle atrocità, andando avanti come se nulla fosse. Quello che ci è chiesto, in nome della pace, in nome del Dio della pace, è smilitarizzare il cuore: togliere il veleno, rigettare l’astio, disinnescare l’avidità, cancellare il risentimento; dire “no” a tutto ciò sembra rendere deboli, ma in realtà rende liberi, perché dà pace».
Il secondo no è alla rassegnazione. «La pace», spiega Francesco, «chiede di combattere lo scoraggiamento, lo sconforto e la sfiducia che portano a credere che sia meglio diffidare di tutti, vivere separati e distanti piuttosto che tendersi la mano e camminare insieme. Ancora, in nome di Dio, rinnovo l’invito perché quanti vivono nella Repubblica Democratica del Congo non si lascino cadere le braccia, ma si impegnino per costruire un futuro migliore. Un avvenire di pace non pioverà dal cielo, ma potrà arrivare se si sgombreranno dai cuori il fatalismo rassegnato e la paura di mettersi in gioco con gli altri. Un futuro diverso verrà se sarà di tutti e non di qualcuno, se sarà per tutti e non contro qualcuno. Un avvenire nuovo verrà se l’altro, tutsi o hutu che sia, non sarà più un avversario o un nemico, ma un fratello e una sorella nel cui cuore bisogna credere che c’è, pur nascosto, lo stesso desiderio di pace. Anche nell’Est la pace è possibile! Crediamoci! E lavoriamoci, senza delegare il cambiamento!».
Occorre lasciare i propri interessi, i propri tornaconti. Perché «non si può costruire l’avvenire restando chiusi nei propri interessi particolari, ripiegati nei propri gruppi, nelle proprie etnie e nei propri clan. Un adagio swahili insegna: «jirani ni ndugu» [il vicino è un fratello]; quindi, fratello, sorella, tutti i tuoi vicini sono tuoi fratelli, siano essi burundesi, ugandesi o ruandesi. Siamo tutti fratelli, perché figli dello stesso Padre: così ci insegna la fede cristiana, professata da gran parte della popolazione. Allora, si alzi lo sguardo al Cielo e non si rimanga prigionieri del timore: il male che ciascuno ha sofferto ha bisogno di essere convertito in bene per tutti; lo sconforto che paralizza ceda il passo a un rinnovato ardore, a una lotta indomita per la pace, a coraggiosi propositi di fraternità, alla bellezza di gridare insieme mai più: mai più violenza, mai più rancore, mai più rassegnazione!».
E poi i due sì «per la pace. Anzitutto, sì alla riconciliazione. Amici, è meraviglioso quanto state per fare. Volete impegnarvi a perdonarvi a vicenda e a ripudiare le guerre e i conflitti per risolvere le distanze e le differenze. E volete farlo pregando insieme, tra poco, stretti attorno all’albero della Croce, sotto il quale, con grande coraggio, desiderate deporre i segni delle violenze che avete visto e subito: uniformi, machete, martelli, asce, coltelli... Anche la croce era uno strumento di dolore e di morte, il più terribile ai tempi di Gesù, ma, attraversato dal suo amore, è divenuto strumento universale di riconciliazione, albero di vita». Così le stesse vittime si trasformano in alberi di vita, «che assorbono inquinamento e restituiscono ossigeno. O, come dice un proverbio: “Nella vita fai come la palma: riceve sassi, restituisce datteri”. Questa è profezia cristiana: rispondere al male con il bene, all’odio con l’amore, alla divisione con la riconciliazione. La fede porta con sé una nuova idea di giustizia, che non si accontenta di punire e rinuncia a vendicare, ma vuole riconciliare, disinnescare nuovi conflitti, estinguere l’astio, perdonare. E tutto questo è più potente del male. Sapete perché? Perché trasforma la realtà da dentro invece che distruggerla da fuori. Solo così si sconfigge il male, proprio come ha fatto Gesù sull’albero della croce, facendosene carico e trasformandolo con il suo amore. Così il dolore si è tramutato in speranza».
L’ultimo sì, poi, quello decisivo, che fa da contraltare alla rassegnazione, è quello della speranza. «Se si può rappresentare la riconciliazione come un albero, come una palma che dà frutto, la speranza è l’acqua che la rende florida. Questa speranza ha una sorgente e questa sorgente ha un nome, che voglio proclamare qui insieme a voi: Gesù! Gesù: con Lui il male non ha più l’ultima parola sulla vita; con Lui, che ha fatto di un sepolcro, capolinea del tragitto umano, l’inizio di una storia nuova, si aprono sempre nuove possibilità. Con Lui ogni tomba può trasformarsi in una culla, ogni calvario in un giardino pasquale. Con Gesù nasce e rinasce la speranza: per chi ha subito il male e persino per chi lo ha commesso. Fratelli, sorelle dell’Est del Paese, questa speranza è per voi, ne avete diritto. Ma è anche un diritto da conquistare. Come? Seminandola ogni giorno, con pazienza». Usando ancora l’immagine della palma il Papa ricorda che quando se ne mangia il frutto chi l’ha piantata non c’è più. «In altre parole, per conquistare i frutti sperati, bisogna lavorare con lo stesso spirito dei piantatori di palme, pensando alle generazioni future e non ai risultati immediati. Seminare il bene fa bene: libera dalla logica angusta del guadagno personale e regala a ogni giorno il suo perché: porta nella vita il respiro della gratuità e ci rende più simili a Dio, seminatore paziente che sparge speranza senza stancarsi mai».
Infine il Papa benedice «tutti i seminatori di pace che operano nel Paese: le persone e le istituzioni che si prodigano nell’aiuto e nella lotta per le vittime della violenza, dello sfruttamento e dei disastri naturali, le donne e gli uomini che vengono qui animati dal desiderio di promuovere la dignità della gente» e ricorda quanti «hanno perso la vita mentre servivano la pace, come l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, assassinati due anni fa nell’Est del Paese. Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto». Con un ultima attenzione particolare dedicata alle donne, alle madri «e prego perché la donna, ogni donna, sia rispettata, protetta e valorizzata: commettere violenza nei confronti di una donna e di una madre è farla a Dio stesso, che da una donna, da una madre, ha preso la condizione umana. Gesù, nostro fratello, Dio della riconciliazione che ha piantato l’albero di vita della croce nel cuore delle tenebre del peccato e della sofferenza, Dio della speranza che crede in voi, nel vostro Paese e nel vostro futuro, vi benedica e vi consoli; riversi la sua pace nei vostri cuori, nelle vostre famiglie e sull’intera Repubblica Democratica del Congo».