L'hanno soprannominata “The Cheese Nun”. Forse perché è riuscita a trovare Dio anche facendo il formaggio. Madre Noella Marcellino, benedettina, casara, microbiologa di fama internazionale, studiosa della biodiversità dei funghi impiegati nella stagionatura del formaggio, attualmente è priora del monastero di clausura Our Lady of the Rock di Shaw Island, nello Stato di Washington, nel Nord-ovest degli Stati Uniti. La comunità è un'emanazione dell’Abbazia Regina Laudis di Bethlehem, centro di quattromila anime nel Connecticut, dove madre Noella è entrata nel 1973 e dove, quattro anni dopo, ha iniziato a produrre il formaggio.
Per metà d'origine italiana (i nonni paterni erano siciliani), ha conseguito il Dottorato in Microbiologia presso l'Università del Connecticut e poi, grazie a una borsa di studio e a un permesso speciale dei superiori, nel 1994 è andata in Francia dove si è specializzata nel processo di stagionatura del formaggio che le è valso l'appellativo di “The Cheese Nun”, svariati premi come il Grand Prix de la Science de l'Alimentation de l'Académie Internationale de la Gastronomie di Parigi e persino un documentario prodotto dalla Paris American Television Company. Ora è consulente scientifica dell'industria casearia americana e viene chiamata come giudice in vari concorsi gastronomici. Il 17 settembre scorso è stata ospite, in video collegamento, di Cheese, la manifestazione di Slow Food che ogni anno richiama a Bra migliaia di esperti e appassionati. L’intervista si svolge su Zoom dove Madre Noella, che ora insegna Canto gregoriano e si occupa della comunicazione e dei siti web delle due comunità, alterna inglese, francese e un po’ d'italiano.
Come ha iniziato a fare il formaggio?
«Nel 1975, quando ero una novizia, l'Abbazia acquistò Sheba, la nostra prima mucca. Mi fu chiesto di mungerla e lavorarne il latte. Mi accorsi subito che per imparare a fare il formaggio ci vuole un maestro che t'insegni la tecnica».
Il suo chi è stato?
«Lydie Zawislak, una donna francese che un giorno provvidenzialmente venne in visita in Abbazia. È lei che mi ha insegnato un metodo tradizionale per fare un formaggio stagionato fungino che ho chiamato Bethlehem. Viene realizzato secondo una tecnica tradizionale e fatto maturare attraverso le muffe in superficie. È molto simile al Saint-Nectaire che Zawislak aveva imparato a fare dalla nonna. La canna è stata una sua idea, così come la spatola di legno per mescolare la cagliata, con un foro a forma di croce al centro».
Il Saint-Nectaire era uno dei preferiti di Luigi XIV, il Re Sole.
«Sì, è un formaggio vaccino a pasta semidura prodotto sui monti dell'Auvergne, nella Francia centrale, dove le mucche si nutrono tra i pascoli d'origine vulcanica. Viene lasciato stagionare per almeno tre settimane sulla paglia o sul suolo nelle grotte naturali vulcaniche dove il sapore viene esaltato dalle muffe naturali e conferisce alle sue forme un colore rossastro all'esterno. Durante i miei studi ho identificato ben quattordici ceppi diversi di batteri nelle grotte dove avviene la stagionatura».
Perché la biodiversità è importante per la stagionatura del formaggio?
«Gli enzimi dei microrganismi che crescono naturalmente all'interno e sulla crosta contribuiscono all'aroma e alla consistenza del formaggio. Ho studiato a lungo il Geotrichum candidum (una muffa che protegge il formaggio da contaminanti di varia natura, ndr). Ogni ceppo può avere caratteristiche diverse dagli altri. Si può rendere il formaggio meno amaro o più proteolitico, abbattendo le proteine. Senza questa biodiversità naturale, i formaggi sarebbero molto meno diversificati per aroma, gusto e consistenza. Oggi l'industria casearia tende a standardizzare la trasformazione producendo formaggi tutti uguali e con lo stesso sapore. Il latte viene lavorato con batteri preconfezionati e i formaggi spruzzati con muffe generiche. Nessuno immagina che la natura, con la sua ricchezza, possa contenere il segreto per realizzare il prossimo Roquefort o il Gruyère. Il ruolo del microbioma è fondamentale».
Madre Noella Marcellino, 70 anni, al microscopio nel suo laboratorio di Microbiologia (© Abbey of Regina Laudis)
Per una monaca che ha scelto la vita contemplativa, cosa c'è di spirituale nel fare il formaggio e occuparsi di muffe ed enzimi?
«Con questa tecnica di stagionatura bisogna essere pazienti, attenti e non avere fretta forzando il processo. Quindi, quando metti un formaggio gommoso, giovane e insapore nella grotta non sai mai cosa ne sarà sessanta giorni dopo. È, in un certo senso, un atto di fede. E il fatto che qualcosa debba invecchiare o maturare per diventare delizioso è una buona lezione. Per la mia attività casearia ho trovato grande sostegno nella Regola benedettina perché il formaggio è un prodotto della terra e San Benedetto predicava il radicamento nella terra, l'humus, che in latino, guarda caso, ha la stessa radice di umiltà».
Perché, come ha affermato una volta, osservando la crosta di un formaggio al microscopio si rivela il mondo?
«Sono una benedettina. San Gregorio Magno scrisse che san Benedetto alla fine della sua vita vide “il mondo intero in un raggio di luce”. Come contemplativi abbiamo bisogno di avere una visione globale e tuttavia abbiamo bisogno di un punto d'ingresso nell'universale. Il nostro motto è “Ora et Labora”. Lavorare con le nostre mani su un aspetto della creazione ci mostra la meraviglia della creazione stessa di Dio e arricchisce la nostra preghiera. Quando, attraverso il microscopio, osservo qualcosa, scorgo il mondo intero e mi ritraggo con stupore e gratitudine per la bellezza del Creato. C'è una preghiera di Sant'Agostino che spiega molto bene quest'aspetto e che mi piace citare: “Alcune persone, per scoprire Dio, leggono libri. Ma c'è un grande libro: l'apparenza stessa delle cose create. Guarda sopra di te! Guarda sotto di te! Annotalo. Leggilo. Dio, che vuoi scoprire, non ha mai scritto quel libro con l'inchiostro. Invece ha posto davanti ai tuoi occhi le cose che aveva fatto”».
Come ha fatto a conciliare la sua attività scientifica con la clausura?
«Noi contemplativi siamo separati dal mondo ma non isolati. Restituiamo al mondo le ricchezze che riceviamo nella nostra vita monastica. Da un po’ di anni ho smesso di fare il formaggio perché richiede molta fatica fisica e l'avanzare degli anni non me lo permette più».
Com'è nata la sua vocazione?
«Da giovane ero molto testarda e ribelle. Nel 1969 me ne andai da casa. Mio fratello, Jocko Marcellino, aveva fondato insieme ad altri musicisti gli Sha Na Na, un gruppo di rock and roll che partecipò al festival di Woodstock. Dopo quattro anni in un liceo cattolicissimo non ne potevo più».
Madre Noella durante la lavorazione del formaggio nell'Abbazia (© Abbey of Regina Laudis)
Cosa cercava?
«Un posto più radicale e alternativo. Scelsi il “Sarah Lawrence”, un college privato dove non diedi molti esami e vedevo i miei compagni saltare le lezioni e drogarsi. Alla fine scappai anche da lì».
Per andare dove?
«Non lo sapevo. Nel 1970 partecipai ad un ritiro nell'Abbazia Regina Laudis durante un weekend. Rimasi molto colpita dalla fede delle monache, dal modo con cui rispettavano i voti e dalla loro obbedienza. Ciononostante sembravano persone estremamente libere. Erano tutte mondane e istruite, c'era anche una consorella, ex star del cinema, che aveva lavorato con Elvis Presley».
Fu un colpo di fulmine?
«Più o meno. Nel 1973 chiesi di entrare come postulante. Quando oltrepassai la grata fu uno shock anche fisico. Dissi: “Oh mio Dio, che cosa ho fatto?”. Nel 1985 ho emesso i voti perpetui per restare a Regina Laudis fino alla morte».
Che luogo è l'Abbazia?
«Un luogo antico con un'anima moderna scandito dal silenzio, dalla preghiera e dal lavoro. Quando arrivai, vidi le monache lavorare duramente come contadini, apicoltori, allevatori, fabbri, artigiani. A me fu assegnato il compito di mungere le mucche».
Una predestinata.
«All'inizio sbagliavo tutto e i maiali pasteggiavano abbondantemente con i miei errori. Pregavo la Provvidenza che inviasse qualcuno a insegnarmi la tecnica e alla fine, grazie a quella donna francese, sono riuscita a ricreare il Saint-Nectaire quasi in ogni particolare, compreso il colore e il sapore della crosta».
Sempre più ragazze oggi scelgono la clausura. Come se lo spiega?
«Siamo una società alienata. Molti scelgono di fuggire dal mondo non per abbandonarlo a se stesso ma per trovare in questi luoghi nuove possibilità di esistenza cristiana e quindi umana e infondere la speranza per la salvezza di tutti, a cominciare da quelli che stanno fuori».