«Come prima cosa dobbiamo cercare tutti insieme di risolvere la radice del problema in Siria e in Iraq. Per fare ciò occorre un accordo politico e un superamento delle divisioni e della ambiguità che i vari Stati hanno. Una volta ottenuto questo, e solo quando ciò sarà chiaro, probabilmente assisteremo a un intervento militare più forte di quello attuale». È questo l’atteggiamento che Paolo Magri, vice presidente esecutivo e direttore dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) suggerisce nella lotta allo Stato Islamico in seguito ai drammatici fatti accaduti a Parigi nella notte tra venerdì e sabato.
Perché è stata colpita proprio la Francia? Inevitabilmente il pensiero va agli attentati del 7 gennaio scorso contro la sede di Charlie Hebdo.
La questione di Charlie Hebdo è molto particolare e ha a che fare con quella che è stata percepita come una provocazione, per cui la Francia in quell’occasione si è trasformata in un simbolo. Questo è un caso diverso: la Francia è infatti uno dei paesi militarmente più attivi nel contrasto al terrorismo in Mali e in Siria e ha la più grande comunità islamica in Europa, con circa 6 milioni di persone, e fino ad ora è da queste comunità che i pochissimi – e sottolineiamolo pochissimi terroristi – sono provenuti fino ad ora.
Come si commenta l’inefficienza degli apparati di sicurezza francesi che non sono riusciti a prevenire azioni compiute nelle immediate vicinanze di uno stadio che ospitava un evento pubblico al quale stava partecipando lo stesso presidente Hollande?
Collegandomi alla domanda precedente, occorre ricordare che la Francia è anche il paese europeo con il più grande numero di combattenti stranieri, o foreign fighters, presenti nelle file dell’Isis (più di 1.550), anche se ad oggi, nei vari attentati susseguitisi in Europa, non abbiamo avuto alcuna evidenza che dietro ci fossero combattenti di ritorno. Ciò che pero è evidente è che in Francia esiste un’articolazione di cellule di ispirazione radicalizzata che gli apparati di sicurezza non riescono a governare ed a intercettare. Quanto successo rappresenta, rispetto al gennaio scorso, un innegabile “salto di qualità” degli attentati: abbiamo visto più gruppi agire contemporaneamente e uno, in particolare, colpire nelle vicinanze di un obiettivo sensibile come uno stadio e soprattutto di uno stadio dentro il quale era presente il presidente della Repubblica.
Dopo la rivendicazione degli attentati da parte dell’Isis ci sono state delle campagne social da parte di persone comuni musulmane, ma è come se si percepisse – al di là di alcuni meritevoli prese di posizione - un certo silenzio da parte del mondo islamico ufficiale.
Il mondo islamico è da anni la principale vittima del terrorismo radicalizzato. Si muore soprattutto in Paesi islamici: si muore in Iraq, in Siria, in Tunisia, si muore, con attentati recenti, in Arabia Saudita e Kuwait, ed anche a Parigi, quando ci sarà la tragica contabilità dei morti, scopriremo probabilmente, alla luce della composizione della società francese, che saranno più i morti di origine musulmana che non gli attentatori coinvolti nei tragici fatti. Tutto ciò deve imporci una assoluta cautela nell’associare l’appartenenza ad una religione al fenomeno terroristico che stiamo vivendo. Se facessimo ciò, come molti partiti xenofobi in Europa stanno facendo in queste ore, faremmo il gioco dei terroristi che non vogliono altro che alzare il tono del confronto e configurare uno scontro di civiltà e religioni.
Quali saranno le conseguenze nello scacchiere iracheno? Si arriverà ad una guerra?
Se questi morti che piangiamo ora ridurranno le divergenze che i vari Paesi – Stati Uniti, Russia, Iran ed Arabia Saudita in primis – hanno su come affrontare le crisi nella Regione ed il contrasto al cosiddetto Stato Islamico, saranno forse stati dei sacrifici drammaticamente utili. Se invece questi Stati si spingessero, sull’onda dell’emozione, a reazioni inconsulte e affrettate, al loro interno e nelle aree del Medio Oriente in crisi, non faremmo che aggravare un quadro già complesso.