Il primo a non credere alla sua vittoria è stato proprio lui: Mahmood. Dopo la proclamazione come vincitore del Festival di Sanremo, è rimasto completamente imbambolato, poi ha girato lo sguardo verso Claudio Bisio che con una mano gli ha stretto le guance per scuoterlo. C’è da capirlo. Fino a quel momento, nonostante la partecipazione a X Factor nel 2012, a Sanremo Giovani nel 2016 e la realizzazione, da autore di successi come Hola (I say) di Marco Mengoni, questo ragazzo di 26 anni, nato e cresciuto a Milano da madre sarda e padre egiziano che li ha abbandonati quando lui era ancora un bambino (la frase in arabo della sua canzone Soldi “Waladi waladi habibi ta’aleena – Figlio mio, glio mio, amore, vieni qua – gliela diceva proprio suo padre ed è quindi uno struggente ricordo d’infanzia), per il grande pubblico era un perfetto sconosciuto.
Al telefono risponde il suo ufficio stampa che lo chiama: «Ale, vieni che cerchiamo un posto tranquillo».
Ciao, ti chiami Alessandro, ma hai scelto come nome d’arte Mahmood. Perché?
«È il mio cognome e rappresenta le mie radici. Ma l’ho cambiato da Mahmoud in Mahmood per l’assonanza con l’inglese my mood che significa stato d’animo, perché è questa la caratteristica della mia musica. Racconto storie che rispecchiano quello che provo».
Claudio Baglioni ha detto che vorrebbe essere nei tuoi panni per rivivere l’ebbrezza di quando ha raggiunto il successo. Tu ti senti pronto?
«Al cento per cento. È quello che ho sempre desiderato fare, fin da bambino. A 12 anni ho preso le prime lezioni di canto, poi ho studiato per due anni pianoforte, teoria e solfeggio e ho iniziato a scrivere i miei primi pezzi. Nel frattempo, mi mantenevo facendo il cameriere».
Qual è il tuo primo ricordo di Sanremo?
«Ero molto piccolo e rimasi colpito dal modo di cantare e di stare sul palco di Alex Baroni».
Hai definito la tua musica “Marocco pop”. Perché?
«Perché non è pop e nemmeno rap, ma risente di influenze frutto dei miei ricordi di bambino quando papà metteva in auto cassette di cantanti arabi, soprattutto marocchini».
Nella canzone parli di lui che voleva solo soldi. È questo che ha rovinato la vostra famiglia?
«La canzone ha senz’altro degli elementi autobiografici, ma non volevo concentrarmi su di me, ma raccontare una realtà, quella delle famiglie composte da genitori di diverse nazionalità che spesso si allontanano per questioni materiali».
In un altro passo della canzone, sempre riferendoti a tuo padre, dici: «Beve champagne sotto Ramadan». Tu sei credente?
«In realtà quella frase può essere intesa come “predichi bene e razzoli male”. Sul mio rapporto con la fede, preferisco non parlare».
Cosa significa per te essere italiano?
«Io so solo che sono nato in Italia, sono cresciuto e ho studiato in Italia, a casa mia si parla il sardo e non l’arabo, ho amici italiani e stranieri e in molte delle canzoni che scrivo parlo della mia città, Milano».
Quante volte sei stato in Egitto?
«Due volte, a 8 e 12 anni. Ma spero di ritornarci presto. E magari di imparare l’arabo».
Questa vittoria ha il valore di un riscatto per i ragazzi con una storia simile alla tua?
«Non voglio darle significati politici. Canto solo il riscatto di chi ha sofferto, ma si è impegnato per raggiungere un obiettivo e ci è riuscito».