La copertina di Iran, donne e rivolte di Sara Hejazi, edito da Scholé nel giugno 2023
A vent’anni esatti dal Premio Nobel per la Pace all'avvocata iraniana Shirin Ebadi, il riconoscimento è stato conferito a Narges Mohammadi, attivista che da anni si batte per i diritti delle donne iraniane. Le due donne, legate strettamente da un impegno politico e civile, condividono la strenua volontà di cambiare l’Iran dall’interno, senza mai perdere la speranza, nonostante i soprusi e le minacce subite negli anni.
Sara Hejazi, giornalista, antropologa, docente universitaria e autrice di Iran, donne e rivolte, edito da Scholé quest'anno, ha usato l'anniversario della morte di Mahsa Amini come espediente per ripercorrere proprio la storia delle donne in Iran, costellata da lotte, rivolte intestine e proteste epocali, attraverso una prospettiva inedita, diversa, libera dal pregiudizio tutto Occidentale sulla cultura mediorientale. L'abbiamo intervistata per una riflessione sul premio vinto da Mohammadi.
Chi era Narges Mohammadi?
«Era un nome già noto perché è sempre stata il braccio destro di Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003. Mohammadi lavorava come vicepresidente nel Centro della Difesa per i Diritti Umani che aveva fondato Shirin Ebadi. Le due donne hanno lavorato sempre insieme: Ebadi è un avvocata che si è occupata tantissimo dei diritti delle donne iraniane, mentre Mohammadi è laureata in Fisica, ma fin dalla fine degli anni Novanta ha fatto dei diritti civili iraniani il proprio baluardo. Ha fatto parte dell'ambiente “riformista” che adesso di fatto non esiste più ma che, dagli anni novanta fino al 2009, è stata una corrente politica che aveva come esponenti di punta Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karrubi, leader del Movimento Verde. Il riformismo iraniano consisteva non tanto nel rovesciamento della Repubblica Islamica così come la conosciamo ma si fondava sull’idea che bisognasse riformarla profondamente dall’interno. Tra queste figure di spicco, si distinguevano anche la giovane Narges Mohammadi e Shirin Ebadi. Quest’ultima, però, dopo aver vinto il Nobel per la Pace, è stata costretta a lasciare il Paese, per cui il premio per lei è stata un’arma a doppio taglio: da un lato ha rappresentato un riconoscimento internazionale importantissimo che ha messo al centro della pubblica opinione il tema delle donne iraniane ma dall’altra parte, all’interno dell’Iran, le ha tolto libertà di movimento. Narges Mohammadi, invece, è stata condannata più volte: la prima, negli anni novanta, quando era sposata con un intellettuale, giornalista e attivista con il quale aveva avuto due figli, che si sono poi spostati in Francia. Non li vede da otto anni, perché dal 2016 sta scontando nel carcere di Evin una condanna di 12 anni di reclusione. Non c’è possibilità per lei di uscire a breve. Fin quando ha potuto operare, ha portato avanti battaglie molto importanti, insieme a Ebadi: di fatto, si occupavano della creazione di una serie di leggi favorevoli per le donne. Ad esempio, il fatto che una donna possa lasciare l’Iran senza il consenso del marito o la questione dell’affidamento dei figli, perché solitamente dopo il divorzio vengono assegnati automaticamente al marito».
Il conferimento di questo premio può aggravare la condizione di Mohammadi?
«Intanto, non c’è una condizione peggiore del carcere di Evin. Lei comunque ha tutta una rete internazionale intorno, non è totalmente isolata. Non penso che il premio incida molto sulla sua condizione, ma sicuramente non le apriranno le porte del carcere. Possibile piuttosto che non sortisca alcun effetto sulla sua vita. Forse quello che può fare è dare speranza al movimento delle donne iraniane: restituisce voce a loro, piuttosto che darla a qualcun altro che parli in loro nome. È un riconoscimento che fa vedere come le donne iraniane cerchino da anni di cambiare l’Iran dall’interno. È giusto restituire a loro il riconoscimento di decisioni prese in autonomia, senza che per forza l’Occidente si prodighi a dare aiuto. È soprattutto giusto darlo a lei, che nonostante in passato sia riuscita a uscire dal carcere, non ha mai abbandonato l’Iran quando avrebbe potuto, quindi merita il riconoscimento globale di una lotta straordinaria. La notizia sicuramente le arriverà: basti pensare che ha pubblicato un libro in carcere in cui testimonia i soprusi subiti dalle tante detenute in carcere. Il governo iraniano è nella sua fase repressiva e aggressiva ma questo non lo rende cieco a tal punto da fare rappresaglie».
Com’è la situazione in Iran a un anno dalla morte di Mahsa Amini?
«In questo momento la situazione è in fase di stallo, perché la maggior parte delle proteste nelle piazze, nelle strade, nelle università si è bloccata perchè è stata fatta una repressione durissima: sono state arrestate più di 500 persone, di cui alcuni sono stati anche giustiziati, per cui continuare fisicamente è un atto di suicidio. Le proteste quindi ci sono ma sono più blande: vengono fatti dei flash mob, tante persone non indossano più il velo, altre si fanno filmare per strada senza velo e poi lo pubblicano sui social. Le azioni si sono quindi spostate online, ma la parte fisica si è depotenziata».
Il velo, come simbolo, viene messo in discussione da anni ormai. Ci sono tante ragazze che ora parlano apertamente di questa tematica e spiegano il loro punto di vista. Attualmente, però, in Iran è ancora previsto l’obbligo del velo.
«L’obbligo del velo è entrato in vigore nell’82. Non è recentissimo ma non è neanche una proposta antica: subito dopo la rivoluzione del '79-80 si è andati verso questo obbligo. In tutta l’Iran si indossa in modo molto diverso, perché un Paese molto grande che comprende molte minoranze etniche e linguistiche, ciascuno con i propri costumi etnici. Per esempio ad Abyaneh, un piccolo villaggio di montagna vicino a Natanz, si usano tutt'oggi soltanto fazzoletti colorati, bianchi con i fiori rossi, molto distanti da quello nero tradizionale e riconosciuto internazionalmente, il chador. I nomadi Qashqai, invece, indossano dei copricapi coloratissimi, molto allegri. Secondo me ci sono tanti veli quante sono le persone dell’Iran. La legge dell’82, tuttavia, non impone l’obbligo del chador, che viene indossato solo da chi vuole indossarlo, ma prevede semplicemente la copertura del capo con un semplice velo».
Tutta la protesta insorta dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata perché accusata di aver indossato male il velo, in cosa allora è davvero consistita?
«Il discorso intorno a Mahsa Amini è partito non tanto dal motivo per il quale è stata uccisa, ma dal fatto che è stata presa dalla polizia morale, un organo a sé composto da uomini e donne poliziotte. Queste donne controllano altre donne sul modo in cui indossano il velo. Mahsa Amini è stata arrestata ed è morta per mano della polizia. La protesta è nata per trovare una risposta a cosa le sia successo veramente, domanda alla quale il governo non ha mai dato risposta esaustiva. Ufficialmente, lei muore per un attacco di cuore, per un’emorragia cerebrale di cui già soffriva, per tutta una serie di scuse insomma che però il governo non ha mai negato. Le proteste insorgono quindi nell’ottica della possibilità che le donne vengano fermate da queste poliziotte, portate in questura e sottoposte a un processo di “rieducazione”. Quando una donna viene arrestata in Iran, infatti, viene innanzitutto rieducata, deve seguire un percorso sui precetti della religione islamica, uscire poi con il chador, rinnegando il velo malmesso ed essere accompagnata da un uomo. I motivi di queste proteste sono quindi molteplici: la risposta al quesito, innanzitutto, del perché questa ragazza sia morta, poi del perché sia stato possibile che sia morta perché indossava male il velo. Il confine tra essere ben velati e mal velati, in Iran, è davvero labile, dipende molto da chi ti guarda. Essendo poi una protesta che va avanti da molti anni, ha incrociato diverse istanze della popolazione iraniana, non solo il velo, ma anche la giustizia sociale, climatica, la possibilità di esercitare libertà individuale».
Che ruolo hanno avuto i social nella diffusione di questa rivolta? Hanno davvero contribuito a incentivarla?
«Senz’altro hanno avuto un ruolo cruciale, ma i social, in generale, hanno un ruolo cruciale su qualsiasi aspetto oggi. Noi dipendiamo e ci facciamo un’idea del mondo dai social. Il coinvolgimento globale intorno a questa protesta è nato soprattutto per l’estetica del velo in sé. Noi occidentali siamo ossessionati dal velo, da almeno 50 anni. È proprio un simbolo che coinvolge le emozioni di molte persone. Siamo presi da quest’idea anche perché, tra l’altro, è presente nella tradizione cristiana e quindi ci ricorda una tradizione familiare ma al contempo richiama un’idea retrograda di femminilità. Oggigiorno la donna velata rappresenta l’antimodernità. È stata quindi coinvolgente esteticamente perché chiamava in causa il femminile, il velo che ha permesso l'ideazione di una serie di gesti iconici, come il tagliarsi ciocche di capelli, dare fuoco all’hijab, ragazzine giovanissime che facevano il dito medio all’ayatollah. Ha avuto una presa estetica importante, fondamentale per la diffusione social. Tuttavia non è la prima volta che vediamo la gioventù iraniana in piazza e gli occidentali che mostrano la loro solidarietà».
Noi occidentali possiamo fare qualcosa per sostenerle? O rappresentiamo solo un ostacolo?
«Secondo me bisogna sempre fare attenzione al nostro sguardo, perché lo sguardo che abbiamo in Occidente è molto pesante e molto giudicante, non solo da un punto di vista morale, ma perché ha innanzitutto un peso economico. L’Occidente di fatto è la parte dominante del mondo, che ha schiacciato anche altre culture ed è necessario ammetterlo. Non possiamo avere uno sguardo neutro, universale. È impossibile, d’altra parte, pensare che la gioventù iraniana sia in una bolla, perché siamo in un mondo in cui le notizie sia influenzano al di fuori dei confini della nazione sia, ritornando, influenzano la nazione stessa. È una dinamica a cui non possiamo sfuggire e a cui siamo tutti assoggettati. Ben venga se poi questo coincide con la possibilità di cambiare e di venire incontro alle istanze dei giovani iraniani, perché comunque sono istanze legittime sotto molti aspetti. È anche vero però che non tutta la popolazione iraniana è compatta rispetto a queste proteste: non è stata una vera e propria rivoluzione nel senso che non ha portato tutto l’Iran in piazza come nel ’79. La società iraniana non è ancora del tutto matura per portare un nuovo cambiamento, non c’è un'ondata reale, soprattutto perché manca anche una ideologia politica unitaria, manca una leadership politica, un’idea, che sono quegli elementi che hanno portato alle grandi rivoluzioni nella storia. È comunque un processo a cui è stato dato avvio, bisogna vedere poi con che tempi si sviluppa, sicuramente non con quelli istantanei dei social».
(Nella foto Reuters in alto: il marito di Narges Mohammadi mostra una foto di loro due insieme anni fa)