Sorriso aperto, grandi occhi
verdi e una voce solare.
Maira Trevisan, 40 anni appena
compiuti il 21 aprile,
si presenta così. Con una gratitudine
che le si legge dentro, forse perché
sa di essere nata due volte. Originaria
di Majano del Friuli – il secondo
Comune più colpito dal terremoto
che contò 130 morti tra i suoi abitanti
– Maira aveva appena quindici
giorni di vita, quando quel terribile
sisma segnò l’esistenza della sua famiglia:
«La sera del 6 maggio stavo
dormendo nella mia culla», inizia a
raccontare, dando voce a ciò che i
suoi genitori le hanno trasmesso, «e
poco prima delle 21 ci fu una prima
scossa di terremoto, breve ma intensa.
Mia madre venne a vedere se stavo
bene e poi uscì sul pianerottolo
a parlare con i vicini di casa perché
lo spavento generale era tanto. Fu in
quel momento che arrivò la seconda
terribile scossa. Il “Condominio Udine”,
dove abitavamo, pur essendo
di recente costruzione, crollò quasi
immediatamente. Mio padre si sentì
mancare la terra sotto i piedi e rimase
lucido e cosciente tutto il tempo.
Mi raccontò che mancò la luce e la
tv si spense, lasciando sullo schermo
quel caratteristico punto dei televisori
a valvole».
SEPPELLITI DALLA MACERIE
Tutta la famiglia è sotto le macerie.
Il padre, Ennio, riesce a riemergere
da solo dopo qualche minuto e
corre da sua madre, che abita a un
chilometro da lì. La madre di Maira,
Franca, e la sorella, Doris, saranno
estratte dalle macerie dopo parecchie
ore, in discrete condizioni di salute.
Tutti vengono trasferiti all’ospedale
di Udine per le cure, ma sia Franca
che Ennio non sanno di essere vivi
entrambi.
LA CERCAVANO TRA I MORTI
Il racconto di Maira prosegue:
«I miei familiari, credendomi morta,
cercavano il mio corpicino tra i cadaveri
della palestra-obitorio. Ma non
riuscivano a trovarmi». Nel frattempo,
un giovane di Fagagna (un paese
limitrofo), Giorgio Ziraldo che all’epoca
aveva 19 anni, venne a Majano
in cerca di un suo amico, fidanzato
con un’inquilina del condominio di
Maira: «Il suo amico, purtroppo, venne
trovato morto abbracciato alla sua ragazza... ma mentre era lì, in quel
silenzio spettrale, Giorgio sentì un
vagito». In mezzo a quello scenario
di morte, non coglie immediatamente
di cosa si tratti. Ma continua ad
ascoltare. E quando capisce che quel
vagito è proprio quello di un bambino,
guida le mani dei soccorritori.
Un grande masso viene rimosso:
«Proprio lì sotto hanno trovato me a
pancia in giù nella mia culla. Ero viva». Le mani di Giorgio, che la prende
subito in braccio, le ridonano la
vita. Poi la piccola Maira viene affidata
alle mani di Renzo Burelli, amico
di Giorgio, che la porta all’ospedale
di Udine. Nei giorni seguenti la voce
inizia a spargersi: «Fu mio padre,
che il 7 maggio aveva ritrovato mia
madre e mia sorella vive, ad accorrere
all’ospedale per vedere se quella
bambina salvata fossi io», prosegue
Maira. Difficile la procedura di riconoscimento:
i medici parlano di una
bambina di tre mesi, perché è piuttosto
cicciottella e l’età non combacia
con quella indicata dal padre. Ma
poi «papà si ricordò di una fossetta
che avevo sul mento: fu grazie a quel
segno particolare che potei tornare
nelle sue braccia».
PROTETTA DA SANT’ANTONIO
Tante mani hanno ridato la vita
a Maira. Eppure lei crede che a salvarla
sia stata l’intercessione di sant’Antonio
di Padova: «Mia madre, donna
molto credente, usava mettere nella
mia culla l’immaginetta del santo, ritrovata,
tra l’altro, accanto a me. Se
sono qui a raccontare la mia storia
lo devo anche a lui», afferma. Mamma
Franca e papà Ennio andranno fino a Padova a ringraziare il “Santo”
per la straordinaria grazia ricevuta.
E la piccola in paese si guadagna il
soprannome di “miracolata”: un appellativo
che non le pesa, ma che, nel
tempo, le fa prendere consapevolezza
del dono che ha ricevuto. «Le persone
che mi incontravano avevano
sempre belle parole per me», racconta
con emozione, «perché, forse, in
mezzo a tutte quelle storie tragiche,
di morte e distruzione, io ero percepita
come un miracolo della vita, un
segno di speranza».
La famiglia di Maira, come tante
altre famiglie, con il terremoto perde
tutto: la casa, la carrozzeria del
padre (messa su con tanti sacrifici al
rientro da 21 anni di emigrazione in
Venezuela), ma, come tutti i friulani,
ricomincia da capo. Dal giorno dopo.
«Avevamo perso tutto, ma avevamo
la vita», confida ancora Maira, «una
fortuna che non è capitata a molti.
Noi eravamo l’unica famiglia del nostro
condominio a essere interamente
salva». L’infanzia di Maira prosegue,
con poca spensieratezza, perché n
da piccola sentiva la responsabilità
della ricostruzione: «Ricordo che
mettevo da parte i soldi per la casa
nuova e ogni giorno andavamo a
vedere il buco lasciato dalla nostra
casa crollata e vedevo una bambola
sul fondo». Dopo cinque anni vissuti
in un prefabbricato, finalmente l’ingresso
nella nuova abitazione: «È stato
il giorno più bello della mia vita».
E Giorgio? «Dopo la sera del 6
maggio perse le mie tracce, ma con
grande discrezione mi ha cercata per
tanto tempo. Ci siamo incontrati dopo
vent’anni e da quella volta siamo
rimasti sempre in contatto e non c’è
anniversario del terremoto nel quale
non ci incontriamo. Per me lui è come
un fratello». E questa vita ridonata
Maira sa di averla ricevuta per
compiere una missione: «Io dovevo
rimanere viva per poter assistere i
miei genitori nel momento della malattia
con tutto l’amore che avevo». E
ora che mamma e papà non ci sono
più, Maira continua nella sua seconda
missione: quella di ridare speranza
agli altri attraverso il valore della
memoria.
Il fatto. Una tragedia con mille morti
6 maggio 1976, ore
21: una scossa di
terremoto di 6,5 gradi Richter
(preceduta un minuto prima
da una di 6° grado) fa tremare
il Friuli. Quasi 1.000 i morti,
circa 40 i Comuni rasi al
suolo e molti altri gravemente
danneggiati, 2.000 i feriti,
60 mila i senzatetto. L’11
e il 15 settembre dello stesso
anno avvennero due nuove
devastanti scosse.
Poi la coraggiosa
ed esemplare ricostruzione:
in un decennio il Friuli è risorto
dalla sue stesse macerie.
Il 40° anniversario del
terremoto sarà ricordato
il 5 maggio alle ore 17 nel
duomo di Gemona con una
celebrazione eucaristica
presieduta dall’arcivescovo
di Udine, monsignor
Andrea Bruno Mazzocato,
e concelebrata dai vescovi
delle diocesi gemellate,
provenienti da tutta
Italia, che contribuirono
alla ricostruzione.