Immagina, puoi. Lo dice George Clooney in
uno spot molto diffuso in Tv. Ecco, allora
immaginiamo un uomo o una donna che
un giorno decide di fare a meno dei sogni,
un altro della speranza, un terzo dell’ambizione, il quarto del futuro. Che cosa potrebbe
fare, quella persona? Che vita avrebbe? Non
sarebbe un ben triste destino, il suo?
Ma questo è proprio ciò che accade alla nostra società, che è un corpo vivo non meno di
una persona fisica e che giorno dopo giorno
rinuncia al proprio futuro. Nella quasi indifferenza generale, e soprattutto in quella delle cosiddette “autorità costituite”, essa regala
ad altri speranze e futuro permettendo che
decine di migliaia di giovani tra i 20 e i 40 anni, in gran parte culturalmente e professionalmente già formati, lascino l’Italia e vadano a studiare o lavorare all’estero, in Paesi
che sono ben felici di accoglierli.
Nel solo 2012, se ne sono andati 36.365
giovani tra i 20 e i 40 anni, pari al 45 per
cento di tutti gli italiani che nell’anno si sono trasferiti all’estero.
In quella fascia d’età,
gli emigrati sono aumentati del 25 per cento
in soli dodici mesi. Chi ama la canzone napoletana ricorderà questi
versi: «Partono i bastimenti / per terre assai lontane». Era l’Italia
dell’emigrazione povera tra fine Ottocento e primi decenni del
Novecento. Oggi non è più
così. Emigrano ragazzi diplomati e laureati, oppure in cerca di lavori
non necessariamente
umili, e non vanno lontano, anzi: si accontentano di girare l’angolo,
certi di trovare comunque opportunità maggiori di quelle offerte dal
nostro e loro Paese. Approdano soprattutto
in Germania (che nel solo 2012, informa l’Albo degli italiani residenti
all’estero, ha accolto quasi 11 mila nostri connazionali), per salire a
bordo della potente locomotiva economica ma pure per approfittare di un
Paese con
regole precise e funzionanti.
Ma anche in
Francia, Svizzera, Gran Bretagna, Belgio.
Persino in Spagna! Ci sono i sempiterni Stati
Uniti, superati però, almeno nei numeri, anche dall’Argentina. E
naturalmente, i Paesi
emergenti come il Brasile e l’Australia.
In queste pagine abbiamo raccolto alcune
storie esemplari, una pattuglia di giovani
che ben rappresenta lo stillicidio di energie
positive, ormai diventato ruscello, cui l’Italia
si espone senza reagire. Eppure non sarebbe
impossibile trattenere quelli come loro. Se il Governo Letta appena insediato fosse a corto d’idee o impossibilitato ad andare a
cercare i giovani emigrati come abbiamo fatto noi, gli basterebbe
aprire un computer e consultare le “proposte
per il futuro” del movimento Io voglio restare (www.vogliorestare.it).
Niente di sconvolgente, molto normale
ma prezioso buonsenso. Protezione della
maternità e della paternità, da dichiarare
“diritti universali, a prescindere dalle forme contrattuali”; più fondi
per lo studio e
per la ricerca (dove invece, negli ultimi anni,
si è tagliato a più non posso); riduzione delle
“irregolarità contrattuali” e del finto lavoro
autonomo; un piano per l’occupazione giovanile; diritto alla casa.
Provvedimenti che costano, ovviamente.
Ma tutto costa: anche la cassa integrazione di
massa, la politica, l’evasione fiscale, il dissesto del territorio e le
barriere burocratiche
all’iniziativa economica costano, e molto.
Proprio a questo, però, serve una classe dirigente che si possa chiamare
tale: a decidere
per che cosa impegnarsi. E il futuro delle persone e del Paese non è
poca cosa.
Fulvio Scaglione
Infografica realizzata da Laura Ferriccioli
Colonia, esterno giorno. Alle 16 di un mercoledì qualunque, Sergio Trimboli, ingegnere foggiano di 28 anni, ha già finito di lavorare. Anziché staccare alle cinque, come usa in Germania, preferisce saltare le pause e tenere per sé il resto della giornata. “Inoltre ho 45 giorni di ferie all’anno e, visto che adesso me lo posso permettere, li sfrutto per regalarmi qualche viaggio”, racconta entusiasta. Al quartier generale europeo della Ford – dove dal 2011 è controls engineer – Sergio doveva rimanere soltanto tre mesi; invece, dopo appena due settimane dall'arrivo si è visto inoltrare la proposta di assunzione. Più che una sorpresa, il Vollzeit, leggi lavoro a tempo pieno e indeterminato, per lui in Italia sarebbe stato un miracolo: troppo innovativo il suo dottorato di ricerca in information technology. “Nel nostro Paese l'offerta di lavoro per posizioni che richiedono livelli teorici avanzati non esiste”, afferma con una punta di amarezza. “E finché chi avrebbe le giuste competenze per innovare sarà costretto ad andare all'estero, l'industria non potrà che rimanere in stallo”. Sergio, in Germania non solo è soddisfatto del lavoro che fa, ma con 2.600 euro netti al mese, considerato anche il costo della vita più basso, si è sistemato bene.
E non è certo l'unico.
Sono 685mila gli italiani espatriati nella prima potenza economica
europea. E mentre l'afflusso di persone addette agli ambiti classici
della gastronomia e dell'hôtellerie è pressoché stabile dagli anni
Sessanta, è ora il turno di chi cerca un'occupazione consona ai propri
studi. Nel 2011, secondo l'Istat, il 28% degli emigrati con più di 24
anni era in possesso di laurea (circa 11mila), e la maggior parte ha
considerato più attraente la locomotiva tedesca rispetto alle altre
destinazioni classiche della nostra emigrazione come Svizzera e Regno
Unito. Convalidano la scelta gli ultimi dati economici: seppur minore
del previsto, il PIL della Germania ha segnato una crescita anche l'anno
scorso (+0,7%, dati Istituto Federale di Statistica Tedesco), e con un
tasso di disoccupazione del 5,3%, cioè meno della metà della media
europea, l'attuale economia teutonica è in controtendenza rispetto al
resto del continente. È il porto sicuro più vicino, insomma. Dove chi
arriva trova stabilità politica, welfare, case a buon prezzo e ottima
qualità della vita. E, naturalmente, lavoro.
Già, perché quelli come
Sergio, che in Italia non trovano da fare, nel “paese della Realpolitik”
si collocano facilmente.
Ingegneri di qualsiasi branca, medici, informatici, matematici e, in
generale, i laureati in discipline tecnico-scientifiche, sono i più
richiesti. “In Germania continua a crescere la mancanza di personale
qualificato”, conferma l'Associazione tedesca dei datori di lavoro, “e
gli italiani sono i benvenuti”. “È vero, qui in Germania abbiamo fama di
essere preparati e svegli”, aggiunge Trimboli, “anche perché la nostra
università non è così deplorevole come spesso si pensa, anzi. Le facoltà
tecniche del Belpaese non hanno nulla da invidiare nemmeno a quelle
americane. Peccato che poi la formazione dobbiamo rivendercela altrove”.
Per informazioni su opportunità
di lavoro in Germania, sovvenzioni comunitarie e programmi
di training dedicati a chi cerca lavoro dall'estero:
www.jobofmylife.de
(Ministero del Lavoro tedesco)
www.europa.eu/eures
(Portale europeo della mobilità professionale)
Laura Ferriccioli
"Il mio unico rammarico è di non essere venuto via prima". Gabriele, 33 anni, di Bergamo, laurea in informatica con il massimo dei voti, dopo alcuni stage non ha fatto fatica a immettersi nel mercato del lavoro in Italia, nel 2006. “E questo è stato il mio problema”, dice da Düsseldorf, dove un anno e mezzo fa l'hanno assunto come business analyst in una multinazionale di gas ed energia. “Perché in Germania, se non fai passi falsi, nel giro di 4-5 anni arrivi a essere dirigente, mentre io, avendo perso tempo a lavorare a Milano, sono in ritardo". Eppure, anche all'ombra della Madonnina, Gabriele era consulente per conto di due grandi aziende. "Le possibilità di fare carriera, però, non c'erano, benché nei vari progetti arrivassi a coordinare 3-4 persone. Nel frattempo, avevo responsabilità e orari di lavoro pesantissimi". E così, delusione dopo delusione, quando un ex collega gli ha fatto sapere che cercavano qualcuno nella società dov'è adesso, non ha esitato a inviare la candidatura. "Se non ti manda Picone, in Italia trovi sempre qualche superiore che ha interesse a metterti i bastoni fra le ruote", continua l'informatico. "Qui non è così: grazie anche a volumi d'affari molto più consistenti. Arrivando in città, si vedono già sfilare lungo il tragitto dall'aeroporto talmente tante sedi di aziende tra le più famose del panorama economico mondiale da avere subito un'idea della ricchezza del territorio".
Lo stipendio? Sin dall'inizio, il doppio di quello da team leader a Milano. "In più, qui si portano in detrazione persino i mobili di casa e, con le spese del trasferimento, l'anno scorso ho avuto diritto a un rimborso di tremila euro da parte dell’erario tedesco, fra l’altro già erogato a settembre dopo la dichiarazione dei redditi di aprile. Ed era in ritardo".
TAPPA OBBLIGATORIA PER I RICERCATORI
Tanti neanche ci provano a collocarsi in Italia. La Germania investe in formazione e sviluppo una percentuale del prodotto interno lordo (2,8% nel 2009, Ministero federale dell'Istruzione tedesco) superiore alla media europea, perciò non stupisce che chi vuole intraprendere una carriera nella ricerca universitaria, il più delle volte punti direttamente alla Repubblica federale appena conseguita la laurea o, al più tardi, alla fine del dottorato. A Simone Pompei, folignate di 28 anni, per ottenere un colloquio presso il gruppo di ricerca in fisica teorica dove insegna da pochi mesi, a Colonia, è bastato lo scambio di poche e-mail. La possibilità di rimanere in Italia dopo il dottorato ce l'aveva, "ma avrei fatto il precario", spiega. "Oltretutto in un settore di ricerca diverso da quello che mi interessa". Più di duemila euro netti al mese e un contratto sicuro per i prossimi due anni, hanno reso la sua una scelta azzeccata. Anche per quanto riguarda l'efficienza organizzativa del nuovo ambiente, Simone è soddisfatto: "Ho una segretaria quasi in esclusiva", racconta. "Dalla posta alla ricerca di un appartamento gestisce di tutto e, addirittura, se ci accorgiamo che serve materiale di cancelleria o altro, lo va a comprare… Cose di una semplicità estrema, mai viste in Italia: lì, chi ha questo ruolo si ritrova in media sulle spalle un intero dipartimento". E a proposito di case, come il resto della Germania, la città con il duomo patrimonio dell'Unesco non è cara, specie se paragonata a Roma e Milano: 600 euro per un bilocale di 50 metri quadrati, arredato e vicino al centro, posson bastare. Spese comprese.
NON SOLO LAUREATI
Con una disoccupazione giovanile al 38,5% (febbraio), è facile immaginare che in tanti lasceranno ancora l'Italia per lavorare in Germania, dove fra l'altro i contratti sono in media più stabili che da noi. Sul mercato globale, infatti, la domanda di prodotti tedeschi altamente specializzati come automobili e macchinari, si mantiene forte. Gran parte dell'industria è concentrata tra la Baviera e il Baden-Wuerttemberg, ma ci sono posti di lavoro disponibili in tutto il Paese: circa un milione, secondo le stime ufficiali. E, dato che in terra germanica i lavoratori italiani sono conosciuti sin dai tempi dei Gastarbeiter (letteralmente, "lavoratori ospiti", chiamati negli anni 50), le aziende sono ben disposte ad assumere chi arriva da oltre confine.
Accanto ai laureati in discipline tecnico-scientifiche, trova facilmente
impiego personale qualificato in settori come metallurgia, automotive
ed energia. Tra le figure più ricercate anche infermieri, programmatori e artigiani (elettricisti, saldatori, idraulici, ecc.). “In genere, a chi entra per la prima volta nel nostro mercato del lavoro, viene offerto un primo contratto a termine” fanno sapere dall'Associazione tedesca dei datori di lavoro, “ma nel 60% dei casi diventa a tempo indeterminato, e il periodo di prova può durare al massimo sei mesi". Condizione essenziale, conoscere il tedesco. Partire in cerca di un lavoro senza saperne neanche una parola può infatti comportare il rischio di doversi accontentare di "lavoretti", ad esempio i part-time cosiddetti "minijob", pagati 400 euro al mese. Perciò, a meno che non si abbia già un impiego stabilito all'interno di uno dei tanti ambienti multiculturali in cui si comunica in inglese, come università e multinazionali, la lingua tedesca bisogna impararla prima possibile. Per gran parte delle assunzioni è infatti richiesto il livello di conoscenza B2, rilasciato da qualsiasi scuola e raggiungibile da principianti in due anni di studio. Il Goethe Institut registra non a caso un aumento di iscritti (+25% in Italia nel 2012) ai corsi intensivi e sta avviando piani di studio professionali specifici per le categorie più richieste (informazioni: www.goethe.de/corsi).
La buona notizia è che si può iniziare con impieghi legati all'e-commerce e al marketing on line, in cui l'inglese è sufficiente, e approfondire nel frattempo la lingua di Goethe a costi irrisori in una delle tante università popolari (Volkshochschulen) disseminate in tutta la Germania. Un'altra possibilità è fare dell'italiano un punto di forza, sfruttandone la conoscenza nel settore turistico o all'interno di società che hanno continui rapporti commerciali con l'Italia. Chi è diretto a Berlino, può tentare in questo senso la carta dei numerosi call center. “A Francoforte le aziende italiane non mancano”, dice Tiziana Lastaria, insegnante 48enne, di Napoli, che vive da molti anni nella capitale della finanza tedesca. "E, in generale, qui di disoccupazione non si sente parlare. Però è chiaro che chi conosce la lingua ha molte più chance di trovare un impiego. Inoltre, nella mentalità tedesca è inconcepibile che una persona non abbia una preparazione professionale, perciò come minimo un attestato, anche di corsi privati, è bene portarlo con sé: approdare in Germania in cerca di lavoro solo con il diploma delle medie, per dire, è un azzardo pericoloso, perché così da queste parti faticano a trovare lavoro anche i ragazzi madrelingua".
Per farsi riconoscere titoli e qualifiche si può cominciare da qui: http://www.anerkennung-in-deutschland.de/tools/berater/en/berater.
Per le opportunità di lavoro nelle varie aree del Paese: www.europa.eu/eures e www.thejobofmylife.com.
Inoltre, ci si può rivolgere ad agenzie private (in inglese) e, se si conosce già un po' di tedesco, consultare i siti web di aziende come Siemens (360 posti per professionisti esordienti e di medio livello), Daimler-Mercedes (60 posizioni aperte a Stoccarda), Volkswagen (453 offerte, principalmente tra Kassel e Wolfsburg), Bayer, ecc.
Su www.make-it-in-germany.com si trovano invece consigli pratici, dalla preparazione del curriculum a come ambientarsi una volta a destinazione e, infine, il social network professionale più usato in Germania si chiama Xing.
VIETATO IMPROVVISARE
A Monaco, la città dove gli alloggi costano di più, le visite per
prendere un appartamento in affitto sono molto affollate. “Di media ci
si ritrova in 15 interessati alla volta”, racconta Fabrizio Sperlinga,
giovane medico di Catania che ad aprile inizierà il tirocinio in un
ospedale della capitale bavarese. Va meglio nelle altre città, ma che ci
sia o no di mezzo un'agenzia, bisogna fornire determinate garanzie ai
proprietari: in mancanza di una busta paga che dimostri un reddito
sufficiente a coprire l'affitto, i tedeschi richiedono al padrone di
casa precedente di confermare l'assenza di arretrati. In alternativa,
serve un documento chiamato Schufa, che attesta in generale la buona
condotta creditizia degli aspiranti inquilini. Tutte cose che chi è
fresco di trasferimento non può procurarsi. Attenzione, quindi, perché
se non si parte con un lavoro già organizzato, il rischio di rimanere a
lungo ospiti di amici e conoscenti in attesa di trovarne uno è alto.
Laura Ferriccioli
Stipendi più alti e, in media, costo della vita più basso. Succede in Germania, dove i cittadini hanno servizi e supporti pubblici, in Italia perfino difficili da ipotizzare. Prendiamo la sanità: è efficiente, spesso i macchinari sono d'avanguardia, e non si pagano né visite specialistiche né ticket. Tutto è compreso in un'assicurazione, pubblica o privata, che rientra nel carico fiscale. Unica eccezione, il lavoro del dentista, perché parte del conto, comunque meno caro che da noi, è da saldare, mentre controllo annuale ed emergenze sono gratuiti. Poi ci sono le sovvenzioni, tante e in diversi ambiti, dagli asili nido alla creazione di imprese, fino alla disoccupazione. Perdi il lavoro? Lo stato ti dà un sussidio e può arrivare a pagarti l'affitto. Il tutto, attraverso un sistema che, diversamente dalla nostra cassa integrazione, spinge a ricollocarsi. Aspetti un bambino? Pronti con un pacchetto di visite ostetriche gratuite. E per ogni figlio, da quando nasce fino a che non spegne 18 candeline, ai genitori vengono elargiti 184 euro al mese: indipendentemente dal fatto che lavorino o meno e dal reddito familiare. Un reddito che subisce fra l’altro un’imposizione fiscale cumulativa, tramite dichiarazione congiunta dei coniugi.
Se poi i ragazzi studiano, cosa non proprio scontata visto il sistema
scolastico selettivo per cui, se non si è bravi già alle medie,
all'università non si può accedere, il Kindergeld, come viene chiamato,
va avanti fino ai 25 anni. Cominciano a lavorare presto? Molto
probabilmente hanno usufruito, verso i 16-17 anni, di un apprendistato
messo a punto dalla scuola con alcune aziende. È il welfare, bellezza, quello con la "w" maiuscola. E, come spiega
Gabriella Di Cagno (vedi l'intervista nell'articolo successivo), coautrice insieme a
Simone Buttazzi del libro "Tutti a Berlino", guida pratica per Italiani in fuga,
“è un insieme di attenzioni per la popolazione che va oltre la
necessità: il criterio base è quello di prevenire l’emergenza sociale,
garantendo una qualità della vita migliore per tutti". I costi? Circa
200 miliardi di euro all’anno soltanto per la parte a favore della
famiglia. Eppure, con un’economia in crescita nonostante la crisi, la
Germania raggiungerà il pareggio strutturale di bilancio nel 2014.
Proprio riducendo il deficit pubblico.
Laura Ferriccioli
Scuole statali bilingui, sovvenzioni per le attività extra scolastiche, un'istruzione che predispone a diventare autonomi, e persino un telegiornale dedicato. L'infanzia in Germania scorre attraverso un'infinita serie di opportunità per divertirsi, crescere e imparare, sviluppando al massimo la capacità di inserirsi sin da piccoli nel tessuto sociale. Anche perché uno speciale sistema di convenzioni impone il rispetto per i bambini. "In strada sono liberissimi di fare qualunque cosa, non ci si può azzardare a parlargli o a fotografarli e c'è una rete di protezione talmente alta che a 5-6 anni vanno a scuola da soli", dice Gabriella Di Cagno, “berlinese” dal 2007. "Naturalmente le eccezioni esistono, ma sono rare. Poi, addirittura, se in casa un bimbo fa chiasso durante gli orari di riposo, i vicini non possono protestare, perché i piccoli hanno diritto a esprimere la loro libertà e la loro creatività".
Nel frattempo, tra i banchi di scuola apprendono come sbrigarsela da
grandi nelle questioni pratiche della vita.
A 10 anni li aspetta una materia simile alla nostra educazione civica ma
che, neanche a dirlo, in pieno spirito teutonico si articola in maniera
più pragmatica. "Spieghiamo nei dettagli come funziona l'assicurazione
per l'assistenza sanitaria, ad esempio; oppure, cosa significa andare in
pensione, perché esistono i sussidi per la disoccupazione, ecc.",
precisa Tiziana Lastaria, che alle scuole elementari e medie
Deutschherrenschulen di Francoforte insegna proprio politica, oltre a
italiano e geografia. Di statali come la sua, dove si studia sia nel
nostro idioma sia in quello di Goethe, nel Paese ce ne sono molte ma
l'ingresso non è sempre immediato. "Dati i continui arrivi di famiglie
italiane per effetto della crisi, il prossimo anno ci organizzeremo
anche noi, ma al momento non ammettiamo alunni che non parlano tedesco. E
non siamo i soli: è necessario che i bimbi frequentino prima un corso
di lingua, magari da piccoli", spiega Tiziana.
Il suo consiglio per chi
arriva in Germania con minori al seguito è di rivolgersi, oltre che ai
consolati, direttamente al provveditorato agli studi più vicino
(Staatliche Schulämter), dove si può avere una consulenza pedagogica
individuale, in inglese, sul percorso di inserimento opportuno.
Si va diretti, invece, alla Scuola Europea di Berlino, un'istituzione
che la capitale vanta in esclusiva per i bambini provenienti dal resto
del continente. È gratuita e in linea con il sistema scolastico tedesco,
ma ha una peculiarità: include ore di attività ricreative e gli
insegnanti fanno lezione in mezzo ai ragazzi, i quali lavorano in gruppi
e creano presentazioni in Power Point delle varie ricerche che mettono
in piedi. Così, rimanerci fino alle quattro di pomeriggio non è pesante.
"Le nostre bambine, quando sono malate insistono per andare a scuola
perché c'è sempre in programma qualcosa che gli interessa seguire, ed è
così per quasi tutti i loro compagni, raddoppiati, fra l'altro, negli
ultimi due anni – raccontano Adalberto e Natalia. Milanesi, dopo aver
conosciuto entrambi la metropoli sulla Sprea mediante trasferte di
lavoro, nel 2006 se ne sono innamorati definitivamente.
Se molti, infatti, trovano in Germania un riparo dalla crisi economica,
sono altrettanti quelli che la scelgono semplicemente per la qualità di
vita che offre. “Noi ci siamo trasferiti proprio per le bimbe, che
adesso hanno 9 e 11 anni: volevamo dare loro la possibilità di vivere in
un luogo dove tutto è più semplice”, spiega Natalia. "E dove
l'influenza nefasta della Tv è minore.
Intendiamoci, in Germania i
palinsesti commerciali sono come in Italia, non è che qui sia tutto
meraviglioso. Ma di sicuro non si trovano ragazzine che sognano di fare
le soubrette e un'alternativa c'è: si chiama Kika ed è un canale
pubblico che oltre a intrattenimento e trasmissioni istruttive, propone
un notiziario molto ben fatto, pensato per i bambini". Lei, da quando
l'azienda italiana per cui lavorava in remoto ha chiuso i battenti, si
occupa di affittare ai turisti un appartamento che ha acquistato a
Berlino subito dopo l'arrivo, mentre Adalberto, regista pubblicitario,
lavora a Milano e fa il pendolare più volte al mese.
"Anche l'impostazione scolastica meno nozionistica, volta a costruire
un'autonomia del bambino, ci piace molto – affermano –, perché serve
alla crescita". Fuori dalle aule, poi, i ragazzi a Berlino hanno una
miriade di corsi fra cui scegliere, strutturati in maniera divertente e
supportati dall'amministrazione pubblica. "La differenza con l'Italia è
che qui, dalla musica allo sport, qualsiasi attività che si può
immaginare c'è e costa in media 20 euro al mese, perciò hai
l'opportunità di farne fare a tuo figlio anche due o tre", sottolineano
marito e moglie. "L’unica cosa che manca sono i nonni", conclude
Adalberto. "Ma ogni tanto, per fortuna, arrivano".
Laura Ferriccioli
In Italia, fra pochi mesi avrà il concorso per la specializzazione in neurochirurgia. Ma a Fabrizio Sperlinga, catanese di 28 anni, fresco di laurea in medicina, poche settimane di tirocinio in un ospedale pubblico di Monaco di Baviera sono bastate, a settembre, per capire dove proseguirà. “Ovviamente non potevo occuparmi dei pazienti ma il Boghenhausen è un policlinico di alto livello dove ho visto e imparato cose nuove", racconta. "La struttura? Solo in neurochirurgia ci sono 80 posti letto, in un reparto perfino il parquet. Ovunque, macchinari d'avanguardia e personale numeroso, fra cui tanti italiani. L'ambiente, del resto, è multiculturale e i medici, disponibilissimi, traducevano per me dal tedesco all'inglese". Unico neo, giornate lavorative di 10-11 ore, compensate da ferie più lunghe. “Ma mentre nel nostro Paese lo stipendio di uno specializzando è fisso a 1.800 euro al mese, in Germania si parte con 2.300 il primo anno e si sale gradualmente fino a quasi 5mila", spiega il giovane medico.
E per entrare, niente concorsi. Basta una mail di richiesta: nel "Paese
della Realpolitik", dove attualmente sono circa 12mila i posti vacanti
per personale sanitario, la risposta te la danno subito. "In Italia,
addirittura, uno dei miei docenti non sapeva usare il computer", ricorda
Fabrizio, che nella capitale bavarese si è dato da fare contattando
strutture sanitarie appena dopo la laurea. Ha fatto centro al secondo
tentativo, si è procurato i documenti necessari e ha passato il
colloquio. In tedesco. "Non ho padronanza della lingua", dice, "ma sto
accelerando con un corso intensivo verso il livello B2, obbligatorio per
l'abilitazione". Nel frattempo, tra Roma e Catania ha concluso le
procedure burocratiche e dal 10 aprile, giorno in cui aveva fissato la
partenza definitiva, è di nuovo a Monaco. Auguri, Fabrizio. In Italia,
purtroppo, ci sarà un (altro) neurochirurgo in meno.
Laura Ferriccioli
Gli unici che ci superano, fra gli immigrati dall'Unione europea, sono i polacchi, in assoluto i più numerosi. Nemmeno gli spagnoli, che pure nell'ultimo anno sono affluiti a frotte (+24,5%), formano a Berlino una comunità ampia come la nostra. Con un aumento del 13,4%, nel 2012 gli italiani residenti nella città-Stato hanno quasi raggiunto, secondo l'Istituto di Statistica del Brandeburgo, quota ventimila (19.770). Fra i quali, stando agli ultimi dati dell'Ambasciata italiana, 8.700 studenti abbassano l'età media. E se dagli anni Sessanta Berlino è bravissima ad attirare artisti e musicisti, oggi il flusso migratorio dall’Italia s'è fatto più corposo, con giovani in cerca di impiego serio e senza raccomandazione, famiglie attirate dalla qualità della vita e perfino pensionati. Già, perché nella capitale che il sindaco Wowereit ha definito "povera ma cool", lo stato sociale è alto come nel resto della Germania ma l'esistenza scorre a ritmi meno stressanti e a portata di tutte le tasche.
Berlino non ha la finanza di Francoforte, il commercio di Amburgo o l'industria di Monaco. Colpa di una eredità storica legata alla divisione della città, che anche nella zona occidentale ha prodotto seri danni alla produzione e, in seguito, per una riunificazione avvenuta sul piano economico al di sotto delle aspettative. Fatto sta che oggi, più che di soldi, la capitale è ricca di idee. E, fedele alla sua identità basata sulla tensione al cambiamento, è cosmopolita, culturalmente stimolante e in forte espansione urbanistica. "A Berlino c'è quel pizzico di “anarchia” che rende l'atmosfera più distesa rispetto alla Germania tipica, più sul vivi e lascia vivere", afferma Gabriella Di Cagno, 52enne, passata sei anni fa da Firenze all’ex cuore della “Guerra fredda” e autrice, insieme a Simone Buttazzi, di un manuale apposito per i connazionali in procinto di emigrare, "Tutti a Berlino" (ed. Quodlibet, 189 pp., 12 euro) aiuta a muoversi spediti negli uffici pubblici della capitale – con tanto di modulistica riprodotta per non farsi cogliere impreparati nella compilazione – e a superare ostacoli non solo istituzionali. Il vademecum, che a maggio sarà presentato a Milano (per informazioni, http://www.tuttiaberlino.eu), prende in esame ogni aspetto della vita berlinese e lo traduce ai principianti: dalle modalità d'acquisto e di locazione degli immobili alle tasse sul reddito, dalle istruzioni per l'uso dell'assistenza sanitaria alla scelta dell’asilo per i figli. Con in più una serie di indirizzi utili per perfezionare il tedesco, ad esempio, o per sistemare e arredare casa fino a cucinarci, volendo, con gli ingredienti giusti in italiano.
Il capitolo introduttivo si intitola Primi passi in Prussia. È così rigido e burocratico l'ambiente berlinese?
“Qui vige un sistema di regole dove tutto è canalizzato. E vale la pena inserirsi rispettando le procedure a cominciare dall’Anmeldung, ovvero dalla registrazione anagrafica presso le autorità tedesche. Va fatta entro due settimane, è compatibile con la residenza italiana ed è indispensabile per qualunque cosa, dall’apertura di un conto corrente bancario all’affitto di un appartamento. Senza contare che dà accesso al welfare”.
Nel frattempo, finché non ci si iscrive all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), per le cure mediche vale la tessera sanitaria italiana…
“Certo, perché l’Italia garantisce il rimborso delle prestazioni erogate. Negli ultimi anni, però, i tedeschi si sono fatti diffidenti: il nostro è un Paese in crisi, ritenuto insolvente, e per questo può capitare che i medici anziché accettare la tessera italiana emettano fattura da saldare all’istante. Compiono un’infrazione, per cui ci si potrebbe addirittura rivolgere alla polizia, ma certo è che vivere tutti i giorni con un documento mal visto e dover discutere è molto sgradevole”.
I costi dell’assistenza sanitaria tedesca, però, possono spaventare...
“È vero ma se si ha un’occupazione non sono un problema. Per i dipendenti paga il datore di lavoro insieme al resto delle tasse, mentre per gli autonomi i versamenti corrispondono al 15% del reddito lordo, qualsiasi esso sia, con una quota minima di 150 euro l’anno. E il sistema, oltre a essere ben pensato, funziona con efficienza. Consente di farsi visitare da qualsiasi specialista privato senza obbligo di passare dal medico di base, il quale peraltro non è fisso come in Italia, e senza dover sborsare nulla. Fino a dicembre scorso si pagavano 10 euro di contributo trimestrale agli ambulatori ma a gennaio 2013 è stato abolito e anche per gli esami non esistono ticket, sono gratuiti. Il dentista, invece, non è incluso, ma i conti non sono astronomici e per le cure c’è un contributo della cassa sanitaria. Io, ad esempio, per cinque otturazioni rifatte di recente passando dal vecchio piombo alla nuova malgama ho speso 250 euro. E non ho nemmeno dovuto anticipare la parte di competenza pubblica, perché la differenza che non è a carico del paziente risulta sempre tramite il microchip della tessera sanitaria e viene scalata in automatico dal totale. Un altro elemento positivo è che a Berlino avere un sostegno psicologico non è da ricchi, anzi è piuttosto consueto: lo Stato stanzia appositamente milioni di euro l’anno. E se gli ambulatori pubblici sono strapieni, la cassa sanitaria paga fino a 50 sedute in quelli privati”.
A proposito di sostegni pubblici: ci sono ancora immigrati che, come in Gran Bretagna, approfittano dei sussidi per vivere il più possibile a spese dello Stato?
“Sì, è chiaro che un certo tipo di persona, diciamo poco affezionata al lavoro, qui trova terreno fertile. Negli uffici pubblici, però, ci hanno assicurato, mentre raccoglievamo informazioni per il libro, che i primi a marciarci sono i tedeschi. I berlinesi sono abituati all’assistenzialismo per via di una mentalità che affonda le radici nel dopoguerra, quando tutto per loro era garantito sia a Est che a Ovest. Sono viziati, sinceramente non li invidio. Comunque, accedere ai sussidi adesso è diventato una gara a ostacoli, cercano di sfinirti psicologicamente. Dal 2009, con la grande crisi nel Sud Europa, la maglia degli aiuti statali si è ristretta e, nell’ultimo anno, il governo Merkel ha deciso di bloccare le erogazioni agli stranieri. Un provvedimento per il quale molti si sono rivolti anche al tribunale”.
Oltretutto, trovare un buon lavoro non dev’essere tanto semplice...
“Berlino è immersa nella disoccupazione. Nonostante questo, c’è un afflusso di massa dal Sud Europa di neolaureti e di persone con abilità in ambiti informatici e creativi, in grado di lavorare nel settore molto trainante delle start-up digitali. Fermo restando che gli ingegneri di qualunque branca sono sempre i benvenuti. Poi, le possibilità di impiego, specie in campi meno istituzionali, sono molteplici: collocarsi in fabbrica o nell’amministrazione pubblica è più difficile, perché c’è maggiore concorrenza da parte dei madrelingua, ma se un italiano ha inventiva, di possibilità qui ne ha. Ad esempio, se un educatore dall’Italia vuole venire a Berlino, parlando il tedesco ha la possibilità di lavorare come Tagesmutter, anche se è uomo. Funziona così: tu apri un asilo a casa tua, fino a cinque bambini, e lo Stato ti finanzia. Basta un appartamento normalissimo, con minime misure di sicurezza”.
È sempre così immediato mettersi a lavorare in proprio?
“Le procedure burocratiche per aprire un’attività sono molto più semplici che in Italia. Anche per un caffè o un ristorante, non occorre il budget che servirebbe a Milano, né tantomeno si rischia di essere taglieggiati. Una cosa, quest’ultima, non da poco, dato che la qualità della vita ha a che fare anche con la sicurezza personale e del proprio patrimonio. Investire a Berlino fa sentire entusiasti, perché i rischi sono contenuti e se si è sprovvisti di capitali non è complicato avere sovvenzioni statali. Infatti la città attrae sia le persone che hanno spirito d’impresa sia quelle che in Italia si trovano svantaggiate. Per alcune categorie professionali, come quella degli artisti – nella quale rientrano tutti i mestieri intellettuali –, c’è inoltre a disposizione una cassa sociale che fa da datore di lavoro pagando agli iscritti quasi tutti i contributi pensionistici e metà dell’assicurazione sanitaria”.
Un’altra agevolazione è data dai prezzi degli affitti. In Tutti a Berlino-Guida pratica per italiani in fuga è riportata una quota media a metro quadro di 7,55 euro, corrispondente al luglio 2012, con una punta massima di 12 euro a Unter den Linden...
“Però trovare un appartamento a Berlino adesso è diventato veramente difficile: occorre presentare una mole di documenti, non proprio a portata di mano, per dimostrare che si è in grado di pagarlo. Per questo, in molti approfittano del Nachmieter, un vantaggio insito nei contratti di locazione: si tratta di un subentro, legale, che non richiede nemmeno il cambio d’intestazione. È molto applicato, anche perché i tedeschi vivono perlopiù in affitto e cambiano casa spesso”.
È facile, dunque, per i tanti italiani che investono nel mattone a Berlino procurarsi una rendita tramite locazione?
“Facilissimo. Fino a poco tempo fa mi sono occupata anche di compravendita immobiliare e ho sempre avuto un gran numero di richieste. Fra l’altro, gli italiani comprano per affittare ai connazionali, i quali bypassano così la montagna di documenti che i tedeschi richiedono. È vantaggioso sia per i proprietari sia per gli inquilini, tanto che si è creata una sorta di Little Italy del mercato con agenzie apposite per chi viene dal Belpaese”.
La città è ancora gettonatissima anche da chi compra per rivendere?
“Sì, anche se adesso i prezzi sono aumentati. Le tasse d’acquisto una tantum sono salite negli ultimi quattro anni dal 3,5 al 5% del valore dell’immobile, proprio perché c’è stato un boom di stranieri, specie dal Sud Europa, che sono venuti a comprare qui: lo Stato ha deciso di guadagnarci”.
Tornando agli immigrati, come sono visti gli italiani?
“Quelli che portano con loro uno charme e un curriculum sono assolutamente ammirati e frequentati. Nel mondo intellettuale, essere italiani è solo un plus. Chi arriva con poca istruzione, invece, è visto con diffidenza, specie dai tedeschi che non sono mai stati in Italia e che a loro volta possiedono un bagaglio culturale scarno”.
Si riesce a contrarre amicizie con i berlinesi o è più frequente rimanere nella cerchia degli stranieri?
“I berlinesi sono rari da incontrare. I primi tempi, infatti, per curiosità li cercavo. Adesso ne ho alcuni come amici e tutto sommato sono piacevoli, anche se non aprono casa facilmente, neanche fra loro. La vita sociale si svolge tutta fuori”.
Del resto la città non è cara...
“È vero. Al ristorante, per mangiare bene bastano venti euro; due, in genere, per bere un’ottima birra. In effetti, emigrare qui nel 2013 è una pacchia, lo vorrei sottolineare. Oggi chiunque arriva trova strutture pubbliche che favoriscono l’integrazione con corsi di lingua gratuiti, o quasi, e un welfare che è ampio anche in virtù delle tante presenze straniere. Rispetto agli emigranti degli anni Sessanta, poi, siamo favoriti dai nuovi mezzi di comunicazione e dai voli diretti low cost. E non si può dire che l’Italia ci manchi, perché ce l’abbiamo qui con i negozi e i ristoranti, gli amici, il cinema e i libri in lingua”.
Quali sono, invece, gli svantaggi?
“Clima a parte, comune a tutto il Nord Europa, direi che i rapporti formali tra le persone e la tranquillità della vita berlinese comportano una rarefazione del calore umano e, per noi italiani, specie se veniamo da un luogo pittoresco, c’è anche una certa perdita di appagamento estetico. Berlino è glaciale, disadorna, grigia: qui il buon gusto, l’eleganza e le atmosfere romantiche ce li possiamo dimenticare. Detto questo, di italiani è piena”.
Laura Ferriccioli
Da Napoli a Londra per
inseguire il sogno di vivere
facendo l’illustratrice.
Monica Auriemma, 44 anni,
è in Inghilterra da poco più
di 5 mesi. Racconta: «Sino
a qualche anno fa non avrei
pensato di lasciare l’Italia,
amo viaggiare e poi tornare
a casa. A maggio 2012
la notizia dell’imminente
cassa integrazione per il
mio compagno mi ha dato
la spinta. Una cosa che
ricordo nei momenti bui è
che la parola “crisi” in cinese
ha due ideogrammi: uno sta
per “pericolo”, l’altro per
“opportunità”».
Dunque,
ecco Monica a Londra
per nuove chance nella
sua professione: «Quando
ho cominciato a pubblicare
come illustratrice avevo
tante speranze. Poi una
serie di disillusioni, la
tendenza a considerare
alcuni lavori creativi come
hobby che non vanno
neppure pagati, una
tendenza al ribasso che
in Italia rende impossibile
sopravvivere solo di
questo mestiere. Avevo
la sensazione netta
che il lavoro, faticoso,
impegnativo, al quale
si arriva dopo anni di studio
e di corsi per migliorarsi, in
Italia non avesse la dignità
che merita. E infatti non
ce l’ha».
A Londra, invece,
nonostante sia qui da pochi
mesi, la Auriemma avverte
che tira un’altra aria:
«La letteratura per ragazzi
ha grande considerazione,
e non parlo solo di Harry
Potter. Le chance per un
illustratore sembrano molte
di più. Sicuramente non è un
momento facile, il Regno
Unito non è immune dalla
crisi e le difficoltà sono
maggiori che in passato.
Ma per quello che vedo
non c’è paragone con l’Italia.
Io sto ancora cercando una
mia collocazione, quindi non
canto vittoria, tuttavia sono
davvero ottimista. E poi qui
a Londra uno straniero non
è visto come un problema,
ma come una risorsa.
È un problema fintanto
che non s’inserisce nel
mondo del lavoro e quindi
le autorità cercano di dargli
tutti gli strumenti perché
lo faccia al più presto,
così potrà contribuire
attivamente, pagare le
tasse e arricchire il Paese».
Pino Pignatta
Per Valeria Plutino,
l’Australia è sempre stata
la meta dei sogni. La spinta
per fare il grande salto è
arrivata con l’inizio della
crisi europea. «In Italia
lavoravo per una società
informatica, ma è fallita
lasciando a casa circa cento
persone». Senza impiego è
rimasta anche lei, 28 anni,
di Reggio Calabria, ingegnere
elettronico con la voglia
di rimettersi in gioco in un
Paese in cui «tutto sembra
ancora possibile». Valeria ha
pianificato con cura lo sbarco
nella terra dei canguri. «Ho
perfezionato il mio inglese,
senza il quale lavorare qui è
difficile. Ho messo da parte
4 mila euro e, soprattutto,
prima di partire ho verificato
se il profilo professionale
poteva essere appetibile sul
mercato australiano: se non
lavori i soldi finiscono subito
e alla fine sei costretto
a tornare a casa».
Atterrata
a Sydney a fine settembre,
per un paio di mesi ha
frequentato un corso
di inglese tecnico mentre
era ospite di parenti. Poi
ha cercato un’occupazione.
«Sono privilegiata: in due
settimane ho trovato posto
in un’azienda informatica»,
racconta. «Ora lavoro
in un team internazionale.
Guadagno 4 mila dollari al
mese, più del doppio della
mia paga italiana». Valeria
vive a Manly, un quartiere
residenziale della capitale
australiana affacciato
sull’Oceano Pacifico. Per
sopportare i costi di Sydney
condivide l’appartamento
con altre due ragazze. E
appena ha tempo corre in
spiaggia a fare surf.
Tornare
a casa? «Spero che il mio
sogno non s’interrompa
proprio adesso», dice. Il
problema principale è quello
del visto. Lei ha un working
holiday visa, rilasciato
a chi ha meno di 31 anni,
che permette di lavorare
legalmente per 12 mesi. «Mi
restano cinque mesi prima
della scadenza. L’azienda
dovrebbe sponsorizzarmi.
Se dovessero cambiare
idea mi toccherà andare
a lavorare per tre mesi
in fattoria, l’unico modo
per rinnovare di un altro
anno il visto. Certo, pensare
di finire a zappare la terra
non è il massimo, ma se
sarà necessario lo farò».
Stefano Vergine
Da appena tre mesi vive
a Dongguan, Sud della
Cina. La storia di Bruno
Colledani è un po’ diversa:
non è andato all’estero
spinto da frustrazione,
ma perché è stato mandato
dall’azienda per cui lavora,
la Luxottica. Insomma,
ha ricevuto la proposta
di impegnarsi in uno dei
mercati più in crescita: un
Pil che aumenta dell’8 per
cento l’anno. Si occupa di
creare ed espandere la rete
post vendita per Cina, Hong
Kong, Singapore e le future
filiali. Poteva rifiutare
un’offerta così un ragazzo di
30 anni?
Bruno, originario di
Spilimbergo, Friuli, laureato
a Udine in Ingegneria
gestionale, esperienze
di lavoro precedenti nel
settore manifatturiero, con
una specializzazione nello
snellimento dei processi
produttivi, fidanzato con
Federica, ha accettato con
entusiasmo ed è volato in
Cina. Racconta: «L’esperienza
paga anche in termini
economici, sarà perché si
lavora più che in Italia. Ma ho
deciso di partire soprattutto
per curiosità, culturale
e imprenditoriale: per vedere
come si vive e si lavora in
Cina, capire che prospettiva
ha il mondo dal Paese che
dominerà questo secolo.
Non nascondo che toglie
tanto a livello affettivo
(famiglia, fidanzata, amici),
ma è una forte spinta
professionale, soprattutto
se l’azienda utilizza la Cina
come palestra per far
crescere le sue leve: come
il vivaio per una squadra
di calcio».
Bruno ha trovato
casa a Dongguan, un mondo
di per sé effervescente:
«L’immobiliare cinese è come
un flipper vorticoso. Sto
anche imparando il cinese
per capire la testa della gente
e il Paese in cui vivrò per due
anni. Con un welfare garantito
da accordi tra l’impresa
e ditte specializzate: dottore,
dentista eccetera. Per il
tempo libero? Ci si arrangia
trovandosi fra colleghi
per una pizza o una cena
al ristorante italiano. Altro
che involtini primavera».
Pino Pignatta
«Emigrare è arricchirsi nel
senso ampio del termine»,
riflette Michele Moresco,
31 anni, di Roma, ingegnere
elettronico impegnato in un
dottorato al Mit di Boston,
il celebre Massachusetts
Institute of Technology.
Dopo 7 anni nella mecca
mondiale della scienza
e dell’innovazione, spiega:
«Dell’America mi piacciono
le opportunità, i nuovi
sbocchi dietro l’angolo:
nel mio piccolo, nonostante
la crisi, ho già avuto dieci
proposte per dieci carriere
differenti».
Certo nel suo
caso la crisi è attenuata
dal settore: i semiconduttori
per microchip in cui è
specializzato sono alla
base di tutta l’elettronica
di largo consumo. Ma le sue
convinzioni sono quelle di
tutti gli italiani che sbarcano
da questo lato dell’oceano
con un titolo di studio e in
testa tanta voglia di fare:
«Cercavo un luogo con più
opportunità e meritocrazia:
non che meritassi più di
altri, però l’idea di un futuro
cosi ostile ai giovani mi
spaventava». E aggiunge:
«Nel mio laboratorio siamo
dodici, di 12 nazioni. Ognuno
porta la sua esperienza e
arricchisce il gruppo. Trovo
magnifico che questo Paese, gli Stati Uniti d'America, riesca ad attrarre talenti da
tutto il mondo».
La violenza
dilagante negli Usa, anche
quella che nei giorni scorsi
ha toccato proprio il Mit,
non lo preoccupa. E come
per quasi tutti gli italiani
emigrati l’idea di tornare
in Italia è sempre presente,
ma più passa il tempo più
ha un valore solo affettivo.
«Purtroppo vedo l’Italia con
preoccupazione, soprattutto
per i coetanei», confida
Moresco. «Qualcosa nella
macchina-Paese ha smesso
di funzionare». Nostalgia
di casa? «Ho trovato una
stupenda comunità di
italiani», conclude, «dalla
quale sono stato adottato.
Giovani pieni di speranze e
ambizioni che hanno scelto
di lasciar casa. Molti di noi
forse non torneranno mai».
Stefano Salimbeni