«Le parole possono far più male delle pietre», dice Luigi Manconi. «Da anni, mi batto per un modo corretto per indicare i gruppi di persone, specie quando si tratta di minoranze. Sono convinto del diritto dei singoli e dei gruppi a essere individuati col termine con cui si ritiene opportuno essere chiamati. Se nel senso comune “spazzino” è diventato denigratorio, è giusto che un addetto alla nettezza urbana pretenda di essere chiamato “operatore ecologico”».
Manconi, parlamentare del Pd, è presidente della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. Ha deciso di aderire alla nostra campagna “Anche le parole possono uccidere”: «Spesso le “parole cattive” sono utilizzate per erigere un muro», spiega, «per definire l’altro come minaccia. È il caso del termine “clandestino”, usato per etichettare un nemico, non una persona responsabile di un’irregolarità amministrativa. Negli ultimi quarant’anni di storia della lingua italiana, è stato adoperato unicamente con un’altra accezione: quella del nemico interno, il terrorista».
- Presidente, l’uso delle “parole cattive” è peggiorato negli ultimi anni?
«Sì, l’idea che possano far male è sempre meno condivisa. Screditare il cosiddetto “politicamente corretto” è ormai un luogo comune, ricorrere al “politicamente scorretto” è diventato una sorta di civetteria, un tic compiaciuto di rivendicazione vanitosa. Si descrive una società dominata da un conformismo linguistico che a sua volta corrisponderebbe a un’omologazione culturale del senso comune. La realtà è opposta: se è vero che nel tempo è cresciuto un certo rispetto nel definire i gruppi, resta maggioritaria l’abitudine denigratoria e offensiva. Prima, il linguaggio del disprezzo era almeno in parte vergognoso di se stesso, oggi è diventato fiero di sé e viene gabellato come non conformismo. Ci abbiamo messo decenni a sostituire “froci” con “omosessuali”, ma oggi c’è un gusto nel tornare a “froci”, quasi che definirli “omosessuali” fosse un’operazione ipocrita, laddove è invece una manifestazione di rispetto. Invece, tutte le volte che “parole cattive” violano un codice sociale di relazione, dovemmo fermarle con una sanzione morale della comunità».
- In questi giorni, a Roma un gruppo di cittadini ha marciato contro gli immigrati, urlando “bruciamo tutti i negri”. Cos’è successo?
«A Tor Sapienza, abbiamo assistito a un caso esemplare di costruzione del capro espiatorio. Un presunto stupro, attribuito a un romeno, diventa il pretesto per la caccia al negro, appartenente, com’è noto, a tutt’altro gruppo. Il nemico non viene selezionato in base alla sua origine etnica, ma a un indicatore di diversità. Non sottovalutiamo inoltre il ruolo di una minoranza, ancora una volta collegata al tifo organizzato, che si dà un’ideologia fascistoide, tutta giocata sul disprezzo per il diverso. La mobilitazione xenofoba nasce dai rancori di cittadini soggetti a processi di esclusione sociale e da una politica dell’accoglienza che sbaglia a privilegiare grossi centri tutti in periferia, anziché piccoli e più equamente distribuiti. Su questo speculano poi gli imprenditori politici dell’intolleranza».
- Nel Veneto e in Piemonte, contro gli immigrati fioriscono invece le ordinanze “anti-ebola” dei sindaci leghisti…
«È appunto un esempio della speculazione di cui parlavo. Va detto con chiarezza: si tratta di provvedimenti sgangherati, lontani dalla realtà e dalla minima connessione con evidenze scientifiche. Dunque, meri riti demagogici».
- In Sardegna, decine di mamme sono insorte alla notizia che due donne rom, in Italia da 40 anni, avrebbero lavorato come bidelle, senza costi per la collettività. Cosa ci insegna quella vicenda?
«L’aspetto più interessante è il seguito: il sindaco non ha ceduto, ora le due donne stanno lavorando e la protesta si è placata. Nel concreto, è l’emblema della fatica dell’integrazione e, al tempo stesso, della sua possibilità. L’integrazione non è un percorso roseo, su prati all’inglese impreziositi di lapislazzuli. Al contrario, vivere insieme tra diversi è una via alle volte difficile, ma quanto accade in tante esperienze italiane dimostra che può realizzarsi. L’alternativa, quella proposta dalla Lega Nord per esempio, è una cupa utopia regressiva, ingenua, convinta di fermare movimenti di milioni di persone con muri tra caseggiati e motovedette; sceglie il conflitto etnico, che è più doloroso e non garantisce certo il bene degli italiani. Invece, affrontare le fatiche della convivenza conviene a un Paese, l’Italia, che ha bisogno degli stranieri per badare ai propri anziani, per lavorare nelle fabbriche siderurgiche, mungere le vacche e per ricevere il loro contributo culturale e spirituale. Punti di conflitto tra diversi segnano la storia di molte nazioni, non solo dell’Italia. Non esistono sistemi democratici che li abbiano prevenuti, ma politiche capaci possono gestirli in modo efficace».