Ci ho pensato a lungo prima
di assumere questo
incarico. Poi mi sono detto,
anche da cittadino e
da credente, oltre che di
servitore dello Stato, che
se volevo un’Italia dalle
mani pulite non potevo
tenere in tasca le mie, così ho accettato.
Ma non ritengo di essere in grado di risolvere
problemi di portata epocale».
Raffaele Cantone, il magistrato già in prima fila contro i clan dei Casalesi, è
molto lucido nel ricostruire i suoi primi
giorni di presidente dell’Autorità anticorruzione.
Ci tiene a sgombrare subito
il campo dagli equivoci: «Non mi sento
l’arcangelo Gabriele chiamato a fare
giustizia e a preservare le tasse degli italiani
onesti. C’era la mia disponibilità a
fare un lavoro complicato, difficile e anche
molto rischioso. Le false aspettative
sono pericolose. Già al primo incidente
di percorso c’è chi ha detto: allora
non ti accorgi di quello che accade».
- A proposito di Mani pulite. Che ricordo
ha dell’epoca di Tangentopoli?
«Nel 1992 ero entrato da poco in magistratura.
Ho guardato ai colleghi del
pool di Milano con grande ammirazione
e grande speranza. Mi pareva una
grande occasione di cambiamento».
- Vent’anni dopo, però, Tangentopoli
sembra essere rimasta tale e quale...
«Rispetto a quello che era accaduto
in quella stagione non è stato fatto nulla
per mettere in campo gli anticorpi
contro i virus della corruzione e della
concussione. Quelli tentati dalle mazzette
hanno capito che, in realtà, non è
che fosse cambiato molto. E così hanno
continuato a fare quel che facevano prima,
in maniera forse più raffinata. L’inchiesta
Mani pulite ha semplicemente
creato una selezione della specie».
- In che senso selezione della specie?
«Hanno resistito i corruttori più bravi,
più potenti, più resistenti. Passata
Tangentopoli non c’è stata alcuna stigmatizzazione.
Su certe materie si è andati
addirittura a peggiorare. Si è indebolita
la normativa aumentando i tempi
delle prescrizioni, rendendo molto
difficile arrivare a sentenze definitive
di condanna, si è depenalizzato il falso
in bilancio. Si è ottimisticamente pensato
– in buona fede e in mala fede – che
il tema era ormai superato. Ci sono stati
rapporti ufficiali che dicevano addirittura
che la corruzione era ormai un fenomeno
debellato».
- In vent’anni, a parte i recenti casi
eclatanti, Aquila, Expo, il Mose, non
ci sono state moltissime inchieste...
«I numeri giudiziari non rendono il
fenomeno. Probabilmente la loro esiguità
è la dimostrazione che il fenomeno
operava con grande impunità».
-Come funziona il suo ufficio?
«Siamo oltre 350, perché abbiamo
ereditato, inglobandola, l’Autorità di vigilanza
dei contratti pubblici. Per controllare
l’Expo abbiamo un’unità operativa
snella, composta soprattutto da
personale della Guardia di finanza. Per
l’Expo di Milano saremo fisicamente presenti, guarderemo e passeremo
al setaccio tutti gli appalti, tutto ciò che verrà fatto mattone su mattone».
È la mafia che alimenta la corruzione
o accade il contrario?
«I due fenomeni sono autonomi ma
correlati. Non è automatico che dove ci
sia mafia ci sia corruzione e viceversa.
Ma sicuramente dove c’è una forte organizzazione
criminale i meccanismi corruttivi
sono favoriti. La mafia può mettere
sul tavolo, oltre che ingenti quantità
di denaro, anche la forza dell’intimidazione.
Anche se l’intimidazione viene
adoperata sempre come estrema ratio.
L’imprenditore mafioso preferisce
più creare con il pubblico amministratore
un rapporto di fedeltà, tentandolo
con il denaro, che usare la violenza».
- Bastano le leggi per fermare un fenomeno
diffusissimo in Italia?
«La lotta alla corruzione è un fenomeno
educativo. Le buone leggi devono essere
accompagnate da comportamenti
morali, di costume, perfino antropologici.
Perché anche oggi sono in molti a
provare simpatia per il furbo, per chi aggira
gli ostacoli e unge le ruote».
-Il maggiore ostacolo che incontra?
«Finora non ho trovato ostacoli.
L’unico ostacolo è la confusione che si
può creare sul mio ruolo e l’eccesso di
aspettativa. Io non sono il Di Pietro
dell’epoca della stagione di Mani pulite.
Il nostro compito non ha nulla a che
vedere con chi deve scoprire fenomeni
corruttivi (anche se, ovviamente, se ci
imbatteremo in episodi sospetti li segnaleremo
all’autorità giudiziaria). Un
altro equivoco è quello di pensare che
noi possediamo la ricetta per far scomparire
la corruzione dall’oggi al domani.
Gli effetti benefici ci saranno, ma
non saranno dall’oggi al domani. Arriveranno,
ma a condizione di avere il coraggio
di attendere».
- Sulla corruzione papa Francesco è
intervenuto più volte condannando i
seguaci della «dea tangente che produce
pane sporco per i propri figli».
«Sono molto contento dell’attenzione
che il Papa dedica a questi temi, frutto
anche della sua esperienza di pastore
nella sua terra: come è noto l’America
latina ha un tasso di corruzione molto
elevato. Le sue parole, oltre che avere
un grande valore morale, contribuiranno
a un grande cambiamento delle coscienze.
Ma non basta che lo dica il Papa,
deve tradursi nell’impegno di tutti i
sacerdoti e dei cattolici in politica. Mi
aspetterei da cittadino e da credente
che queste affermazioni venissero tradotte
anche in attività concrete. In passato
questo impegno nella Chiesa non
ha avuto la stessa determinazione, è stato
intermittente. Se un sacerdote fa la
campagna per il politico squalificato, diventa
poco credibile quando dal pulpito
predica contro la corruzione».