Due gol, uno finto e uno vero. Argentina-Inghilterra, Mondiali del Messico 1986. Più che una partita la prosecuzione di una guerra con altri mezzi. Si gioca a calcio ma su quel campo c’è molto di più: pesa la ferita fresca del conflitto per quelle che la Regina d’Inghilterra chiama Falkland, l’Argentina Malvinas. Diego Armando Maradona, nel pieno della sua grandezza, segna ogni volta che vuole a Napoli, è un simbolo planetario anche se ha un corpo che non sembra quello di un grande atleta e una vita tutta sopra le righe oltre le righe del campo. Il pallone gli obbedisce sempre.
La prima rete è un gol di mano che l’arbitro convalida, è un furto e uno sfregio, Maradona lo sa. Di più, è una rappresaglia e la rivendicherà. In spregio all’Inghilterra, al Padreterno, la chiamerà la mano di Dio, perché lo sanno tutti che in quel momento Maradona ha la sfrontatezza di sentirsi un dio. Glielo ricorda Napoli, che lo venera tutti i giorni, lo ama oltre la follia e intanto lo danna. Ma lui non lo sa ancora, forse ci casca, lasciandosi lusingare dai peggiori sentendosi onnipotente. In campo onnipotente lo è davvero, incanta il pallone come un pifferaio magico. Il secondo gol ne è la prova. Il pibe de oro, come lo chiamano, parte a metà campo e si scarta tutta l’Inghilterra come se fosse fatta di sagome di cartone, fino in porta. Bellezza pura. C’è tutto Maradona in quei due gol, bello e dannato in ordine inverso. Maradona in campo, normalmente, era quello del secondo gol, perfetto e anche corretto. Non barava in campo, Diego Armando, non gli serviva: comandava la palla come voleva, con la genialità di un artista, disegnava rimbalzi impossibili per tutti. Prendeva botte da orbi, perché lo marcavano tutti strettissimo raddoppiando e triplicando, e non le rendeva mai, né si lamentava. Era sobrio, quasi inglese quando gliele davano, non si buttava e non faceva scenate. Si rialzava e segnava.
Maradona fuori dal campo era quello del gol di mano, non cinico e non baro è vero, ma fuori da ogni schema, esposto a tutte le esagerazioni: ha provato di tutto, sfidato quel corpo capace di intelligenza geniale con la palla, in ogni modo, non gli ha negato nulla e forse gli ha chiesto troppo, se è vero che gli ha presentato il conto così presto. Lo ricorderemo con tutte le sue contraddizioni, ma nel passare alla storia vincerà il genio del pallone, Maradona nel suo campo finirà come Caravaggio di cui tutti ammirano l’arte sacra senza più domandarsi se Michelangelo Merisi abbia violato o meno il quinto comandamento, anzi sapendo che lo ha fatto. Se vale la legge del campo, Diego Armando Maradona è stato il migliore. Nessuno risolverà mai il dilemma della partita con la storia: meglio Pelè o Maradona, con terzo incomodo Di Stefano, perché ogni epoca ha la sua memoria e in questi casi decidono l’anagrafe e la nostalgia. Si aggiungono Messi e Ronaldo, ma è un’altra partita, di un’altra generazione. Ai posteri l’ardua sentenza.
L’altra sentenza non la conosceremo mai. Non sapremo mai come l’avrà messa stasera con la parabola dei cinque talenti: se nel conto varranno quelli fatti fruttare sul campo o quelli sotterrati fuori. È una partita che non vedremo, un segreto tra lui e il Dio con cui ha provato a giocarsi il cielo a dadi.