«Da piccolo, quando ero a casa mia e pioveva sopra le lamiere, chiudevo gli occhi. Immaginavo di sentire il suono degli applausi, quelli che oggi sono veri e che sento intorno a me. Il cinema è diventato la mia famiglia, la solitudine è finita». Con queste parole Marcello Fonte ha ritirato il premio per il miglior attore alla settantunesima edizione del Festival di Cannes, ottenuto con Dogman di Matteo Garrone. Fonte è un uomo minuto, all’apparenza fragile, ma con una grande forza d’animo. Conserva la sua umiltà anche dopo il successo, e trasmette una grande allegria. Ama guardare le persone negli occhi e non ha paura di mettersi in gioco. Lo abbiamo incontrato a Roma, dove ci ha raccontato le origini della sua carriera e un sogno: «Vorrei diventare padre».
Che cosa è rimasto di quel ragazzo che sognava gli applausi?
«L’arte di arrangiarsi. Quando non hai le risorse, in qualche modo devi trovarle, te le devi anche inventare. Nessuno ti regala mai niente, bisogna lottare, crederci fino in fondo, usando la grinta che ognuno di noi ha dentro di sé».
Qual è il tuo rapporto con la recitazione?
«Cerco sempre la verità in ogni gesto. Per esempio, nel caso di un pittore, la trovo nel movimento che fa con il pennello sulla tela».
Hai sempre voluto recitare?
«No, nella vita i desideri cambiano. Il mio sogno adesso sarebbe di diventare padre. All’inizio volevo fare il musicista, sono entrato nella banda del paese per seguire il mio migliore amico. Venivo da una discarica, da un profondo isolamento, e volevo stargli vicino».
Come sei arrivato a Roma?
«Mio fratello abitava nella capitale, così l’ho raggiunto. Lui mi ha fatto avvicinare al teatro e al cinema, un mondo che allora non conoscevo. Non avrei mai pensato di fare l’attore. Dovevo fermarmi a Roma solo tre giorni e invece sono ancora qui. Questa città mi sembrava il paese delle meraviglie, un luogo magico, dal Colosseo a San Lorenzo. Guardarla mi faceva venire voglia di cantare. E lo facevo dal mattino alla sera».
Cosa ricordi della tua prima volta sul set?
«Sono un po’ narcisista e mi piace sentirmi addosso la macchina da presa, sento che può raggiungere la parte più profonda dell’animo umano. La prima volta era per un cortometraggio a Tor Bella Monaca: il mio compito era aprire una porta. Solo questo. Ma mi è bastato per innamorarmi di questo mestiere».
Sei un appassionato di fotografia?
«Tantissimo. Quando ero piccolo le foto le facevano sempre gli altri, invece quando sono arrivato a Roma ho potuto farle io. La prima macchina fotografica me l’ha regalata mio fratello. Quando guardo un’immagine, mi piace spingermi oltre, cercare di capire il punto di vista di chi ha scattato la foto. Mi piace cercare la poesia».
Ci puoi raccontare la storia della tua foto con Leonardo DiCaprio?
«Stavamo sul set di Gangs Of New York di Martin Scorsese e io facevo la comparsa. Era il momento di girare la scena dell’arrivo degli irlandesi al porto e DiCaprio doveva scendere dalla nave. Ho colto l’occasione, l’ho avvicinato, ho tirato fuori la macchina fotografica dalla tasca e ho chiesto a un tale con il cilindro di scattarci una foto. Solo dopo ho scoperto che quel tale era Daniel Day-Lewis, il protagonista de L’ultimo dei Mohicani, un mio mito».
Nella vita hai fatto anche il regista.
«Non è stata una scelta, ma un’occasione. L’ho fatto per Asino vola, la storia della mia infanzia, e spero che adesso riusciremo a farlo distribuire in sala. Ho sempre accettato quello che mi veniva offerto. Non bisogna porsi troppe domande: agire è l’unica soluzione. Serve coraggio».
Com’è avvenuto il tuo incontro con Matteo Garrone?
«Faccio parte di una compagnia teatrale di ex detenuti del carcere di Rebibbia. Purtroppo uno di loro è morto per un aneurisma durante le prove di uno spettacolo, e io ho preso il suo posto. È così che ho iniziato. Recito ancora con le sue scarpe e me lo porto nel cuore. Loro sono attori professionisti a tutti gli effetti, e abbiamo fatto insieme i provini per Dogman. Mi hanno preso, ed è stata un’emozione grandissima. Garrone è un vero artista, un maestro».
Avresti mai pensato che il successo sarebbe arrivato tramite una storia “nera” come quella del canaro della Magliana?
«Ci ho sempre messo tutto me stesso. La dedizione è indispensabile in questo lavoro. Conoscevo la storia del “canaro” solo per sentito dire. Quindi ho usato quello che sapevo di me per costruire il personaggio, mi ci sono immerso dentro e ho capito molte cose. Recitare è una scoperta di sé stessi, bisogna abbandonare le paure, e poi non si smette mai di imparare. La vittoria a Cannes è stata un punto di partenza, mi ha incoraggiato, mi sta dando più sicurezza. Quando mi hanno richiamato al Festival non immaginavo nulla: stavo prendendo un caffè a San Lorenzo e ho pensato che fosse uno scherzo. Ho preso lo smoking e mi sono lanciato dentro l’aereo. Poi Roberto Benigni mi ha chiamato sul palco, ed è stato bellissimo. Avrei voluto che quel momento non finisse mai».
Progetti futuri?
«Mi hanno già dato da leggere tante sceneggiature, ma voglio seguire Garrone e i suoi consigli. Mi piacerebbe anche tornare a lavorare con Scorsese, non metto limiti alla provvidenza».
(Foto in alto: Ansa)