Il film Fai bei sogni quando uscì nel 2016 divise i critici a Cannes. Succede sempre con Marco Bellocchio, autore tra i più anticonformisti del cinema italiano. Uno capace di spaziare dalla ribellione sessantottina contro i valori piccolo borghesi (I pugni in tasca) alla crisi d’identità (La balia, L’ora di religione, Sorelle mai) fino alla narrazione di personaggi chiave per il Paese (Buongiorno, notte, Vincere). Fai bei sogni, ora nelle sale, ha però suscitato reazioni perché anomalo rispetto al cinema di Bellocchio. Per la forma, per nulla aggressiva. E per la storia: una sofferenza intima, mai urlata, tratta dal best seller autobiografico di Massimo Gramellini.
Signor Bellocchio, lei non è solito ispirarsi ad altri. Cosa l’ha colpita di questo romanzo?
«Ho scovato tra le pagine temi in cui ritrovare emozioni personali. Mi ha colpito il dramma della morte della mamma, l’essere orfani da bambini. L’ho letto con slancio autentico».
In effetti, Gramellini tocca temi cari al suo cinema: la mamma (distrutta in senso reale o gurato), la famiglia borghese, il babbo oppressivo, la casa come metafora del tempo...
«Il dolore di chi perde la mamma adorata a nove anni. La ribellione all’ingiustizia. L’adattamento, che però avrà un prezzo da adulto. Della storia di Massimo mi ha colpito ciò che io non ho avuto e avrei desiderato: sentirmi amato da mia madre, non solo protetto e nutrito. In I pugni in tasca, Alessandro finiva per buttare nel burrone la mamma per una sorta di ferocia, per questo suo sentirsi non amato. Qui invece c’è un amore assoluto, la mamma però improvvisamente scompare. Ecco, per la mia sensibilità, questi due estremi si toccano».
È come se lei sentisse il bisogno di far pace con la figura materna e abbia scelto di farlo attraverso la storia di Massimo Gramellini...
«Non so se si tratti proprio di pace. È innegabile però che questi due film, apparentemente agli antipodi, abbiano una comune sorgente d’ispirazione. Insomma, è il compimento di un lungo cammino».
L’anaffettività è la tara che Massimo si porterà appresso...
«È l’aridità che nasce in chi si sente circondato dalla mancanza di affetto. Massimo si difende. È così spaventato dalla perdita improvvisa della mamma che sceglie di chiudersi in sé stesso. Costruisce una sorta di corazza con cui tiene lontani gli altri. Se i linguaggi possono essere diversi, per me resta la comunanza di sentimenti. O di non sentimenti».
Fai bei sogni è una storia di paura della verità. E di quanto male possa fare scoprirla. Morta la madre, amato in modo rozzo dal padre, Massimo (bravo Valerio Mastandrea) cresce scontroso. Nessun amore sopravvive, solo fare il giornalista lo appaga.
Inviato di guerra a Sarajevo, torna diventato incapace di fare il freddo osservatore, pronto a mettersi in gioco. Ma il bisogno di verità crea ansia. Solo il paziente amore di Elisa (Bérénice Bejo) lo aiuterà a guardare con meno paura al passato.
Uscendo dalla proiezione, qualche critico si è lamentato di non aver riconosciuto la mano di Bellocchio. Come se lei si fosse rammollito. In effetti, lo stile del film appare insolito, quasi classico. Come mai?
«Un regista si deve adeguare al tono della storia che racconta. Ma a 77 anni figuriamoci quanto me ne frega d’inseguire il singolo critico. In giro vedo tanta superficialità. Sono convinto che ci siano critici che scrivono di cinema senza mai aver capito cosa sia davvero. In Fai bei sogni non c’è una sola immagine girata per compiacere, che non sia cioè men che necessaria».
Una parola sul cast. Bravi Guido Caprino nel ruolo del padre e Bérénice Bejo in quello della fidanzata che fa breccia nell’anaffettività di Massimo. Com’è nata però la scelta del protagonista?
«Mi sono guardato attorno. È venuto fuori il nome di Valerio Mastandrea. Immediata l’obiezione: lui così romano per fare un torinese... Mi ha convinto il provino. Non solo è bravo ma i suoi occhi trasmettono una sofferenza, una malinconia che viene dal profondo».
Nel film, al solito, ha una parte suo figlio Pier Giorgio. Ma lei è padre anche di una ragazza adolescente. È preoccupato per il mondo che lasceremo a questi giovani?
«In famiglia siamo di tre epoche diverse. Io che ho fatto ormai la mia strada. Pier Giorgio che, a quarant’anni, ha raggiunto un equilibrio dopo fasi travagliate. Poi c’è Elena, che ha vent’anni e studia con passione architettura: ora è ad Amsterdam per un master. È autonoma. Non so se sarà mai un grande architetto, ma ha un approccio di serietà, di responsabilità che nasce in risposta a quel senso di precarietà che affligge oggi troppi ragazzi. La polemica sui “bamboccioni” è vuota. Io vedo una gioventù ricca di spinte non distruttive. A differenza dei miei tempi».