Dalle stradine di Trastevere ai grattacieli delle Nazioni Unite. Il 12 giugno il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, ha partecipato al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un invito nato per un confronto sulla difficile situazione della Repubblica Centrafricana, sulle possibilità di giungere alla fine della crisi e sulle vie di pace da percorrere. Un riconoscimento importante per la Comunità, che ha firmato un accordo di collaborazione con l’Onu, attraverso il sottosegretario agli Affari politici Jeffrey Feltman, sulla pace e la prevenzione dei conflitti nel mondo.
Di ritorno da New York, nella sede della Comunità, dove sono passati Papi e patriarchi, politici e monarchi, con il professor Impagliazzo parliamo di questo importante riconoscimento a livello internazionale. E dell’accordo per la pace in Centrafrica firmato a Roma, il 19 giugno.
«La situazione in Centrafrica va peggiorando, crescono le divisioni e le violenze, c’è tanta povertà, sono calpestati i diritti umani di tante persone, il Paese è frammentato e c’è poco controllo da parte sia dell’esercito che del governo. L’Onu ha un inviato speciale, ha delle truppe, ma serviva un’iniziativa politica. Il fatto che l’Italia sia membro del Consiglio di sicurezza nel 2017 ha favorito l’invito alla Comunità di Sant’Egidio perché portasse una proposta positiva. È stata la prima volta da quando lavoriamo sui temi della pace, quindi per noi è un momento storico. L’accordo di Roma è nel segno di rilanciare il dialogo politico tra le diverse parti e fazioni etniche, religiose, militari di vario tipo. Solo con una ripresa della politica si potrà vedere un futuro per il Paese».
Da Trastevere a New York. Come legge questo cammino per Sant’Egidio?
«L’invito nasce dall’esperienza accumulata nel corso degli anni in campo internazionale, con un lavoro di mediazione svolto in diverse aree del mondo, a partire dalla pace ottenuta per il Mozambico nell’ottobre 1992. Nel 2017 celebriamo infatti i 25 anni dell’accordo firmato proprio qui a Sant’Egidio nel 2002. Era un Paese dilaniato da una violenza fortissima e ci accorgemmo che la cooperazione era sostanzialmente inutile, si perdeva, perché la guerra è madre di tutte le povertà, solo la pace è alla base di una vera rinascita. Anche grazie all’invito di un vescovo mozambicano mettemmo a disposizione la nostra conoscenza e il nostro amore per questo Paese per mostrare che la comunità cristiana ha un’energia di pace che può spendere. Fu un fenomeno molto particolare all’interno del mondo diplomatico e delle Nazioni Unite, di una pace trattata da una comunità cristiana con un rappresentante del governo italiano e con la Chiesa del Mozambico. Dopo due anni e mezzo di trattative arrivammo alla firma proprio il giorno di san Francesco, il 4 ottobre».
Come siete arrivati in Centrafrica e prima ancora in Mozambico?
«La presenza dei nostri membri africani ci ha permesso di avere una conoscenza molto approfondita di questi Paesi – culturalmente, politicamente e religiosamente – e le informazioni che ci giungono, così come le richieste di aiuto, vengono prese in considerazioni da un piccolo ufficio che abbiamo a Roma e che lavora su questi temi. Capendo bene qual è la realtà delle periferie del mondo, grazie alle informazioni che ci arrivano, si è giunti a costruire tanti percorsi, tra cui quello Centrafricano. Un vantaggio che ha la Comunità di Sant’Egidio è che, non essendo una realtà né militare, né politica, né economica, ha una grande attrazione su tutte quelle forze e guerriglie sparse che si contrappongono ai governi e non vengono considerate da nessuno. Qui trovano una porta per parlare e la possibilità di fare formazione. Molti gruppi vivono nelle foreste, non hanno un’educazione politica. Vengono a Roma, fanno dei corsi su cosa è la democrazia, la storia, la politica».
Cosa significa lavorare per la pace mentre le grandi potenze proseguono la corsa agli armamenti e disdicono accordi già fatti? Qual è il metodo Sant’Egidio?
«Significa occuparsi dei problemi delle persone, delle sofferenze della gente, occuparsi della realtà alla base, rispettare i loro tempi. Non avere fretta di concludere un accordo ed essere molto riservati. Chi viene qui a Sant’Egidio sa che può parlare dei propri problemi senza che questi fuoriescano. Riservatezza, rispetto dei tempi e creazione dei legami di amicizia. Dopo la segnalazione da parte di chi vive in un contesto di guerra, c’è l’assunzione di responsabilità; in concreto prendiamo contatti con le varie parti, le invitiamo a Roma, prima separati e poi tutti insieme. Nel caso del Centrafrica a Roma sono confluiti 14 gruppi, con rappresentanti del governo e delle Nazioni Unite».
Dalla Costa d’Avorio al Burkina Faso, all’America latina: più volte la Comunità ha tentato mediazioni di pace. Qual è lo spirito che attraversa le varie iniziative?
«Certamente un tema trasversale è lo spirito di Assisi: come le religioni possono essere utilizzate per la pace e non come benzina per fomentare le guerre. C’è una visione della religione molto distorta che viene dagli estremisti, in particolare musulmani, ma noi lavoriamo perché le religioni siano coinvolte – come è successo in Costa d’Avorio e in Centrafrica – nella costruzione della pace. In quest’ultimo Paese, in particolare, siamo stati aiutati dalla presenza dei “tre santi” di Bangui, il cardinale, il pastore protestante e l’imam, che hanno creato un comitato interreligioso per la pace che lavora a stretto contatto con noi. Oggi potrebbe esserci un nuovo protagonismo delle religioni non per la guerra ma per la pace. Questa è la nostra convinzione».
Quali sono i rapporti con la diplomazia vaticana?
«Informiamo la Santa Sede dei nostri passi, informiamo i nunzi. Non c’è una collaborazione formale».
Cosa vuol dire lavorare per la Pace in Paesi che non sono in guerra, come per esempio in Italia?
«Da tanti anni abbiamo creato una rete di scuole per la pace in tutte le città di Italia. Prima erano solo scuole di alfabetizzazione, ora sono anche luoghi di educazione alla pace e, con la nuova conformazione delle scuole, con la presenza degli immigrati, sono diventate scuole di convivenza. Dalle scuole si è formato un movimento di giovani per la pace. Poi c’è tutto un lavoro che si fa da parte della comunità di adulti, nelle scuole, nei mercati, nei luoghi di ritrovo, per creare quel clima di convivenza, contro le varie forme di razzismo».
E siete tra i sostenitori del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, il cosiddetto ius soli e lo ius culturae…
«Nel 2004 siamo stati tra i primi a proporre una modifica della legge di cittadinanza, perché ci rendevamo conto che l’Italia stava cambiando. Avevamo una legge per un Paese di emigranti, oggi bisogna farla per un Paese di immigrati. A partire dai bambini. Lo slogan nel 2004 era “Ho bisogno di te”, perché l’integrazione in Italia avviene soprattutto grazie al mondo della famiglia, della scuola e del lavoro. La proposta in Parlamento ci piace, anche se non ci soddisfa al cento per cento. È molto moderata, non tenerne conto sarebbe veramente un atto di cecità, un guardare al passato e non al futuro».