«Tutte le mattine entro in classe e inizio la lezione con una frase rituale: “Ci sono domande o questioni?”. Quando qualcuno alza la mano sento che questo è il bello di fare l’insegnante: vuol dire che i ragazzi hanno ripensato a ciò che abbiamo discusso la settimana prima. E mi fa amare questo mestiere anche quando vedo dagli occhi di un ragazzo o una ragazza che non solo ha capito ciò che ho spiegato, ma che sa anche riutilizzare un concetto prima non posseduto. Che ha uno strumento in più per “dirsi”».
Marco Ronconi, 44 anni, insegnante di religione nel liceo classico Giulio Cesare a Roma, di queste soddisfazioni ne raccoglie da quasi due decenni. Da quando, arrivato nelle scuole medie a fare supplenze per pagarsi gli studi, ha capito che in mezzo agli alunni a parlare di religione ci voleva restare per tanti anni. Desiderio che ancora oggi porta con sé quando saluta la moglie Emanuela e i piccoli Davide e Sofia per andare a lavorare.
TEOLOGO LAICO
Nativo di Ostiglia, nel Mantovano, dopo tre anni di studi nel seminario diocesano, Marco capisce che diventare prete non è la sua strada. Ma, racconta, «quell’esperienza mi ha trasmesso una gran passione per la teologia. Così negli anni Novanta mi sono iscritto alla Pontificia università gregoriana di Roma, dove tra l’altro ho conosciuto mia moglie, e ho ottenuto il dottorato. Poi ho imparato a insegnare con sette anni di incarichi alle scuole medie nella borgata di Tor Bella Monaca. E dal 2009 sono al Giulio Cesare».
Lo incontriamo per l’intervista e il servizio fotografico nei giorni della ripresa dopo la pausa natalizia. Il liceo è una cella frigorifera perché l’impianto di riscaldamento non ha voluto saperne di ripartire dopo le vacanze. Ma insegnanti e studenti fanno lezione anche in sciarpa e cappotto. Lo spirito d’adattamento nelle scuole italiane è all’ordine del giorno: questione di passione. Una passione che Marco spiega di aver imparato prima di tutto dai colleghi: «Certo, per la nostra generazione i modelli erano don Milani e L’attimo fuggente. Ma devo dire che nel mio percorso di docente è stato fondamentale l’esempio delle persone in carne e ossa incontrate nelle scuole: dal preside della media dove ho avuto il primo incarico fino a colleghi e colleghe di altre materie con i quali ho passato ore a discutere, progettare, confrontarmi. E ovviamente tanti colleghi di religione, una tra tutti Manuela Terribile, con i quali la mia diocesi, il vicariato di Roma, favorisce il continuo scambio e confronto».
Ma che adolescenti incontra oggi un insegnante di religione? È vero che le nuove generazioni sono del tutto disinteressate alla religione? «Per i ragazzi che ho sotto gli occhi posso dire di no», risponde Ronconi. «Però è vero che a livello ecclesiale siamo molto vicini all’interruzione della tradizione: ad esempio, le parole che usiamo per dire certe cose non corrispondono a quelle che usano i giovani. “Virtù” o “peccato” sono fonte di discussioni lunghissime solo per cercare di trovare un significato minimo condiviso. I ragazzi scelgono di frequentare l’ora di religione per tantissimi motivi diversi: per ascoltarsi, per parlare di sé, ma anche perché hanno saputo che affrontiamo il greco biblico, la liturgia, la morale, la Divina commedia... E ci sono studenti che si iscrivono senza sapere neanche loro perché. In alcune classi partiamo dall’attualità, ma l’altro giorno mi sono sentito dire: “Prof, ormai parliamo quasi sempre di noi. Possiamo parlare delle cose? Finisce di spiegarci il movimento ecumenico?”».
CAPIRE IL SENSO DELLA VITA
Ma allora qual è il compito dell’insegnamento della religione? «Innanzitutto», tiene a chiarire, «bisogna sfatare l’idea che noi insegnanti di religione siamo una specie di “agenti all’Avana” incaricati di raccogliere ragazzi a scuola e portarli in parrocchia. Non siamo catechisti, non siamo lì per farli diventare credenti. Ma non siamo nemmeno asettici docenti di “storia delle religioni”. Io insegno loro le parole e le logiche del cristianesimo e la capacità di riconoscere diverse opzioni di fede. L’oggetto della mia materia è la teologia. Poi – ed è comunque bello che sia così – copriamo tanti buchi culturali aiutando a capire arte, letteratura, storia e attualità, che sono pieni di “religione”». Obiettivo ultimo? «Lo stesso di ogni insegnamento a scuola: dare gli strumenti per essere liberi e “di animo grande”, come dice Gaudium et spes, per capire il senso della vita, che non è monopolio dell’ora di religione. C’è una frase di papa Francesco che amo tanto: “La scuola serve perché nessuno si senta in diritto di avere paura della vita”. Che la vita faccia paura non è un problema, è un dato. Ma ciò non è un alibi per non vivere la vita. Servono gli strumenti per affrontarla e così, misteriosamente, è pure bella».
LA MISSIONE DELLA SCUOLA
Ronconi crede fortemente nella missione educativa e formativa della scuola, che considera più un fatto collettivo che uno sforzo individuale: «Mi riesce difficile pensarmi al singolare; faccio sempre parte di un gruppo di insegnanti». E in questo trova sostegno nelle parole di Francesco pronunciate nel giugno 2014 in piazza San Pietro. «Quel discorso», spiega Ronconi, «da allora lo faccio ascoltare nell’ultima lezione alle classi che faranno la maturità e ogni volta mi commuovo. Il Papa disse così: «Auguro a tutti una bella strada nella scuola, una strada che faccia crescere le tre lingue che una persona matura deve sapere parlare: la lingua della mente, la lingua del cuore e la lingua delle mani. Ma, armoniosamente, cioè pensare quello che tu senti e quello che tu fai; sentire bene quello che tu pensi e quello che tu fai; e fare bene quello che tu pensi e quello che tu senti».
Foto di Carlo Gianferro