Giovanni Falcone è vivo. La sua memoria viene tramandata dalle nuove generazioni. Ogni anno, nell’Aula Bunker, dove nel 1986 si svolse il maxiprocesso a carico di 460 imputati per mafia istruito dal giudice palermitano, il più grande processo penale mai celebrato al mondo, arrivano da tutta Italia migliaia di studenti per esprimere con la loro presenza non solo il ricordo dei “martiri per la giustizia”, come Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, morta con lui nella strage di Capaci, Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle loro scorte, ma anche il costante impegno per imparare giorno dopo giorno la legalità e costruire una nuova società.
Incontriamo Maria Falcone nella sede della Fondazione, a Palermo, una villetta in via Serradifalco sequestrata a un boss di Cosa nostra. La prima domanda è quasi inevitabile: a venticinque anni dalla strage di Capaci, è cambiato qualcosa? La sorella del giudice simbolo della lotta alla mafia ci tiene a ricordare il motivo per cui ha iniziato questa attività in memoria del fratello. Anche se per lei non è facile ripercorrere di continuo quanto è accaduto quel tragico pomeriggio di sabato 23 maggio 1992.
«C’è stato un momento», dice, «subito dopo la morte di Paolo Borsellino (che avevo incontrato più volte e mi aveva sempre ripetuto: “Stai tranquilla, continuerò io il lavoro di Giovanni”), in cui la disperazione ha preso il sopravvento. Pensavo che tutto fosse finito, come lo stesso procuratore capo Antonino Caponnetto aveva detto espressamente».
Ma il suo carattere non glielo permetteva. «Ognuno di noi», spiega la professoressa Falcone, 81 anni compiuti da poco, per anni insegnante di Diritto negli istituti superiori, «arriva a una determinata azione in base a delle pulsioni varie». Per lei le pulsioni dipendevano dall’aver vissuto per tanto tempo vicino a suo fratello Giovanni, l’avere condiviso il suo lavoro, i suoi problemi, persino la sua vita blindata. E l’aver considerato tutte le possibilità di quell’attività che Giovanni aveva intuito si potesse fare, compresa la sconfitta della mafia che non era più una cosa impossibile, ma possibile, come lui stesso aveva detto nel suo libro Cose di cosa nostra: «La Mafia, come ogni cosa umana, avrà un termine».
Certo il giudice Falcone aveva ben compreso che per sconfiggere Cosa nostra non bastava la sola repressione, cioè quella attuata dalle forze dell’ordine, dalla magistratura. «Ma era necessario togliere alla mafia il terreno fertile sul quale prosperare. Bisognava creare una società che rigettasse tutti quelli che sono i disvalori della mafiosità, soprattutto l’indifferenza, l’omertà». Cosa nostra riesce a infiltrarsi nel tessuto sociale e attacca quelli che sono i gangli vitali della vita di un Paese. «Se noi creiamo una società più impermeabile a questi attacchi, già creiamo una situazione da cui partire, sicuramente migliore».
Da questa convinzione è nata la Fondazione Falcone, con la sua attività nelle scuole, nelle università; nella necessità di coinvolgere tutta la società. «Ricordo un particolare che mi raccontò Giovanni e voglio condividerlo per far capire quanto sia importante il ruolo nella società: quando Tommaso Buscetta, “il boss dei due mondi” pentito, iniziò a collaborare con la giustizia e a raccontare tutto a mio fratello, più volte gli disse durante gli interrogatori: “Dottor Falcone, il suo conto con la mafia si chiuderà con la sua morte”. Ma mio fratello non si lasciava intimorire da quelle parole e rispondeva sempre: “Non si preoccupi: dopo di me, dopo la mia morte, altri uomini continueranno il mio lavoro”».
«Mio fratello non amava rilasciare interviste, lo fece poche volte e una di queste fu quando iniziò il maxiprocesso. Il giornalista gli chiese qual era il messaggio che voleva dare a Palermo e lui rispose: “A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”».
I ricordi si affastellano. Maria Falcone racconta di un uomo che difficilmente può essere descritto, «perché per tutti è considerato il giudice che ha sconfitto la mafia», invece lei vuole uscire dal simbolo e comunicare il suo lato umano, a volte evangelico: «Parlo dell’uomo che ha creduto in determinati valori basandosi su uno dei pilastri più importanti della cristianità: ama il prossimo tuo come te stesso. Lui il suo lavoro non l’ha fatto per sé stesso, per essere ricordato, ma per la comunità, per le nuove generazioni».
Colpisce come questa donna, nel promuovere infaticabile le idee del fratello, a distanza di venticinque anni continui ad avere una carica intensa e a portare avanti con la Fondazione l’impegno per i giovani, perché possano crescere nella speranza della giustizia.
Con il libro Giovanni Falcone. Le idee restano, in collaborazione con la giornalista Monica Mondo (edito dalla San Paolo), Maria Falcone racconta la storia, i ricordi, le emozioni della vita di famiglia, per far scoprire ai ragazzi le radici umane, profonde di Giovanni Falcone, non «eroe ma uomo vero».
Prima di congedarci, questa appassionata testimone degli affetti e della memoria ci ricorda le pregnanti e profetiche parole che Paolo Borsellino pronunciò a un mese esatto dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992, pochi giorni prima di cadere per mano di Cosa nostra: «La vita di Giovanni Falcone è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il signicato di dare a questa terra tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene… Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera… dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo».
Foto di Melania Messina