Sono scienziati italiani di alto profilo internazionale. Sono 24 e compongono il Comitato tecnico scientifico dell'Associazione italiana per la ricerca sul cancro. Devono rispettare un regolamento improntato al massimo rigore e alla più totale trasparenza. Per esempio, nessun componente del comitato «si troverà a valutare progetti nei quali è coinvolto in prima persona, oppure presentati da gruppi del medesimo istituto di ricerca e nemmeno ricercatori della stessa città o regione». Non solo: chi fa parte di questa "squadra" che s'impegna al massimo livello dell'oncologia mondiale, non può esprimere pareri su progetti presentati da persone con cui si sono pubblicati articoli negli ultimi cinque anni. E chi dichiara un "conflitto" deve lasciare la sala delle riunioni durante la valutazione del progetto, e può rientrare solo a valutazione conclusa.
Si può dire che questo Comitato ha in mano i soldi donati dagli italiani per la ricerca sul cancro e deve decidere a chi assegnarli, su quali ricercatori far confluire i finanziamenti. Insomma, su quali progetti puntare nella battaglia di tutti i giorni contro il cancro. Ne abbiamo parlato con Maria Ines Colnaghi, laurea in Scienze Biologiche, che ha iniziato la sua attività di ricerca nel 1965, e dal 1984 al 1999 ha guidato il Dipartimento di oncologia sperimentale dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano. Oggi è il direttore scientifico dell'Airc.
Professoressa Colnaghi, le fotografie dei 24 ricercatori che compongono il Comitato tecnico scientifico dell'Airc, disponibili sul sito dell'Associazione, rivelano donne e uomini giovani. L'età media di questo gruppo sembra molto bassa, per essere degli esperti di oncologia a livello internazionale...
«Sì, si tratta di una "squadra" molto giovane, diciamo intorno ai 50 anni, ma con alle spalle un'esperienza già fortissima come ricercatori, con un ruolo di primo piano nell'oncologia italiana e internazionale. Ma questi 24 componenti del Comitato tecnico scientifico dell'Airc non sono soli nel compito di valutare i progetti di ricerca che arrivano da tutto il mondo, perché l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro è ormai parecchio conosciuta all'estero. Questi 24 ricercatori affiancano circa 600 revisori stranieri, cioè i migliori professionisti che si battono ogni giorno contro i tumori, lo stato dell'arte dell'oncologia mondiale. L'Airc è anche questo, di là dalle azalee e dalla arance, iniziative fondamentali perché è la disponibilità dei fondi che ci permette di sostenere la ricerca e quindi di essere così conosciuti e di guadagnare la fiducia degli italiani: la nostra Associazione è anche un moltiplicatore di energie scientifiche, una struttura che mette in Rete e fa lavorare insieme i più grandi scienziati oggi operativi sulla scena dell'oncologia mondiale».
In questi tempi nei quali si sente spesso parlare di "fuga di cervelli" dall'Italia, accade spesso che molti vostri ricercatori lavorino stabilmente all'estero?
«Guardi, il problema non è che i nostri migliori giovani "scappino" all'estero a fare ricerca, trovando finanziamenti e tecnologie all'avanguardia per la lotta contro il cancro, o per altri traguardi scientifici. Il vero dramma è che non si trovino le risorse per farli tornare a continuare il loro lavoro portando qui, nei laborartori e nelle università del loro Paese le competenze acquisite. Per l'Airc è molto importante che i ricercatori abbiano anche le nostre borse di studio per avere l'opportunità di crescere professionalmente fuori dall'Italia. Ma certo poi ci aspettiamo che sviluppino i progetti finanziati dall'Airc, in Italia, principalmente nelle nostre università, nei laboratori dei nostri ospedali più all'avanguardia».
Il compito istituzionale più importante assegnato al Comitato tecnico scientifico dell'Airc è valutare e selezionare i progetti di ricerca più promettenti, meritevoli di un finanziamento. Nel momento in cui assegnate un punteggio alto e puntate con decisione su un determinato progetto, non sapete ancora se quel ricercatore avrà o no successo...
«I finanziamenti sono assegnati ai progetti più promettenti dai revisori stranieri coadiuvati dal nostro Comitato tecnico scientifico. Questo è quello che facciamo: con i fondi che raccogliamo dagli italiani selezioniamo le idee che ci sembrano più meritevoli e crediamo in esse. La ricerca è ricerca, non è mai possibile garantire risultati certi, è un processo in divenire, si chiama appunto "ricerca" perché esplora la malattia, la "aggredisce" con le migliori menti e con le tecnologie più avanzate, andando alla scoperta di nuovi farmaci, di nuove terapie contro i tunori. In questo senso, un progetto di ricerca è insieme una scommessa di alto profilo scientifico e un'attesa. E qualsiasi risultato ottengano i nostri ricercatori è, ovviamente, a disposizione dell'umanità intera».
Chi segue e conosce l'Airc attraverso le iniziative "di piazza" per raccogliere fondi, o chi contribuisce con donazioni, immagina il ricercatore con un camice bianco chino su un computer e spera che prima o poi strappi una vittoria concreta contro i tumori, annunciando magari di avere battuto il cancro al polmone o al pancreas. E' giusto attendersi questo dagli scienziati?
«E' giusto attendersi il massimo dell'impegno e delle competenze scientifiche, unite al progresso tecnologico più all'avanguardia. Poi i risultati, straordinari, sono sotto gli occhi di tutti. Quando io ho iniziato la mia attività, come giovane medico all'Istituto dei Tumori di Milano, mi chedevo dove fossi capitata: dicevano che era un "lazzareto", perché la mortalità era altissima. Oggi siamo al 50 per cento dei tumori sconfitti. Certo, ci sono ancora tipi di cancro dove siamo indietro, proprio, per esempio, i due che lei ha citato, polmone e pancreas. Maper altri tipi di cancro la vittoria è ormai consolidata, si può dire che ci sono tumori guaribili al cento per cento, soprattutto se lo screening è fatto in tempo, se funziona bene la prevenzione e la diagnosi precoce. Certo, quando in famiglia c'è qualcuno che non ce la fa è facile pensare subito che la ricerca non abbia fatto in realtà granchè, che il lavoro dei ricercatori sia sterile. Ci si ricorda solo del 50 per cento dei tumori che ancora "vincono" sulla scienza. Eppure c'è un altro 50 per cento che abbiamo definitivamente sconfitto, soltanto grazie alla ricerca e agli scienziati, tra i quali quelli finanziati dall'Airc. E questo quando ho iniziato 50 anni fa all'Istituto dei Tumori, in quello che chiamavamo il "lazzareto", non lo avrei neppure immaginato».
Un altro vostro compito istituzionale è ideare e promuovere l'innovazione in oncologia. Che cosa s'intende, esattamente?
«Appunto trovare vie nuove di lotta contro il cancro. Valutando i progetti che presentano i ricercatori all'Airc non soltanto dal punto di vista medico-scientifico, ma anche dal punto di vista della loro fattibilità, dalle tecnologie messe in campo per raggiungere l'obiettivo, che più saranno innovative e più saranno capaci di superare le difficoltà davanti alle quali adesso ci fermiamo, ma che domani saranno superate con lo studio e con l'applicazione di metodologie di ricerca innovative».
Professoressa Colnaghi, lei lavora da oltre 50 anni nel campo della ricerca e dei tumori. Qual è sinora la sua gioia più grande?
«L'aver visto, anno dopo anno, tante persone salvarsi. L'essere passata da quel "lazzareto" alla realtà di oggi in cui non solo si guarisce ma si è in grado di riperndere una vita degna di essere vissuta. Ma forse una gioia più grande ancora è avere assistito personalmente alla parabola professionale di una grande scienziata italiana come Franca Fossati Bellani, pioniera dell'oncologia pediatrica. Anche lei giovane medico all'Istituto dei Tumori di Milano: la ricordo scoraggiata all'inizio della carriera, quasi pronta a mollare tutto, con le lacrime agli occhi davanti a tanti bambini che allora morivano di tumore senza la possibilità di fare nulla per salvarli. Oggi questa eccellenza dell'oncologia italiana vede quei "suoi" bambini che si erano ammalati di tumore e posi sono guariti grazie ai progressi della ricerca, diventare genitori, a volte nonni, avere una vita splendida. Ecco, forse è questa la mia gioia più grande».
Che cosa direbbe a un giovane studente di Medicina per convincerlo a scegliere la ricerca piuttosto che la strada più tradizionale dell'impegno clinico in corsia?
«Gli direi che il ricercatore è il mestiere più bello del mondo. Gli suggerirei quello che tempo fa mi sussurrò uno scienziato: "Se non fosse perché devo mangiare anch'io, sarei disposto a pagare per poter fare ricerca. Perché ci vuole passione per dedicare la propria vita a un lavoro dietro al quale ci sono le speranze di migliaia di malati di tumore e delle loro famiglie. E gli direi che se pensa che potrebbe mancargli il contatto con il letto d'ospedale, con il malato, allora potrebbe comunque fare il clinico ricercatore. Se invece questo contatto non gli manca, allora potrebbe dedicarsi alla ricerca di base o a quella chiamata “translazionale” , nella trincea dell'innovazione oncologica, dove i risultati magari non si vedono subito ma a distanza salvano milioni di vite umane.