Padre Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico a Tripoli, in Libia.
«No, non ho paura. Anche se l’uccisione dei sacerdoti copti ci ha scossi non poco. Però non credo che ci siano pericoli immediati per noi». Padre Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico a Tripoli, continua a ritenere giusto, come aveva subito dichiarato in una intervista a Radio Vaticana, rimanere in Libia «anche se tutti gli italiani, comprese le religiose che prima erano qui, sono partiti. Io come vescovo, però non posso andarmene, il mio gregge, anche se piccolo, non può rimanere senza guida. I due sacerdoti che sono con me sono molto bravi, ma non voglio e non posso lasciarli soli».
Per il francescano, nato 72 anni fa in Libia da genitori italiani e poi ritornato «a servire questa terra con amore», nel 1971, «la responsabilità maggiore è quella di dare una testimonianza di dialogo nella fede. La presenza religiosa qui ha significato negli anni proprio questo: che esiste la possibilità di dialogare e lavorare insieme cristiani e musulmani».
E anche oggi che la comunità cristiana è ridotta la minimo «c’erano circa 150 mila fedeli quando sono arrivato e circa 300 oggi», padre Martinelli non smette di sperare: «Siamo qui per fede e per testimoniare che la convivenza è possibile. Siamo qui per pregare per il mondo intero, per la Libia, per l’unità dei musulmani e, soprattutto, per la riconciliazione delle tribù in Libia».
Non vuole sentire parlare di interventi «tantomeno militari. Gli unici aiuti che servono sono quelli che possono aiutare il dialogo e la convivenza pacifica. Un intervento italiano, soprattutto se è un intervento militare sarebbe disastroso e non ci aiuterebbe. Tutt’altro». Il francescano è convinto che «serve diplomazia, ma, ancora di più e non è un discorso utopico, serve la preghiera. Pregare per i nostri fratelli musulmani è qualcosa di più forte e che può dare più frutti di qualsiasi altro intervento e di qualsiasi diplomazia».