Qual è il modo più corretto per celebrare la Giornata della memoria del 27 gennaio, in cui si ricordano le vittime della Shoah? Lo chiediamo al professor Massimo Giuliani, docente di Pensiero ebraico nell’università di Trento.
Professor Giuliani, il rischio delle giornate commemorative, che si ripetono ogni anno, è quello di soffocare nella retorica. Vede questo rischio anche per la Giornata della memoria?
«Io vedo due rischi: quello della banalizzazione, dovuto a un eccesso di immagini e di parole retoriche; e il rischio opposto di una sacralizzazione della memoria. Sono i rischi di un modo di presentare la Shoah che mette tanta enfasi sulla memoria e poca sulla storia. Io penso che sia necessario far passare una maggior consapevolezza dal punto di vista storico per una conoscenza critica di quello che è successo. La Shoah riguarda la storia dell’Europa e la sua identità».
La Shoah fa parte della identità civile dei cittadini europei?
«Sì, è una tragedia legata a fenomeni totalitari che in quanto tali hanno coinvolto tutte le dimensioni della società, nessuno se ne può tirare fuori. Le Chiese hanno fatto la loro parte nel non resistere al messaggio incivile e immorale del nazifascismo e per gran parte degli intellettuali è accaduta la stessa cosa. Il nazismo e il fascismo erano ideologie forti che in un momento economico e politico particolare sono diventate una macchina di razzismo incredibile».
Le condizioni che portarono al totalitarismo e alla Shoah si possono ripetere anche oggi?
«Sì, la minaccia c’è ancora oggi. Nella Shoah c’è un convergere di concause che possono tornare e questa fu la grande intuizione di Primo Levi. Certe condizioni della storia si possono ripetere, perciò, se non teniamo altissima l’allerta culturale e spirituale, l’ideologia razzista si ripresenta».
Oggi quali fenomeni la preoccupano?
«In Europa vediamo diffondersi i semi velenosi dei populismi, delle politiche contro gli immigrati, dell’islamofobia, la quale si è aggiunta all’antisemitismo, che ancora esiste. Certo, oggi abbiamo più anticorpi di quanti ce ne fossero allora, tuttavia certe ideologie rischiano di ripresentarsi, perciò bisogna usare questa memoria per far crescere la coscienza e la conoscenza».
C’è bisogno di meno emotività e di maggior studio?
«Sì. Pensiamo ai film, anche ottimi, dedicati alla Shoah. Questi film colpiscono a livello emotivo, ma serve una conoscenza più profonda dei fatti storici che aiuti a comprendere tutta la complessità di un fenomeno. La vera educazione non è solo quella che colpisce l’immaginazione, ma quella che aiuta a far crescere la consapevolezza, con una base razionale forte. In questo modo si evita anche il rischio di creare la competizione fra le vittime e la comparazione fra vari genocidi della storia. Fra le tante tragedie storiche, tuttavia, la Shoah rimane tra le più grandi sia per la dimensione numerica, sia perché mirata ad annientare un intero popolo».
Il tema della Shoah che ruolo occupa nel dialogo e nel confronto fra cristianesimo ed ebraismo?
«Tutte le Chiese hanno fatto dei passi straordinari per superare quel peccato di origine che è l’antigiudaismo di matrice cristiana. Questi passi enormi sono stati fatti perché la Shoah era di una magnitudine tale da scuotere anche la coscienza religiosa. La dichiarazione Nostra aetate, il documento del Concilio che abolisce l’accusa di deicidio verso il popolo ebraico, viene pubblicata nell’ottobre del 1965, venti anni dopo la fine della guerra. Ci sono voluti due decenni per prendere coscienza che la Shoah è stato l’ultimo episodio di una criminalizzazione del popolo ebraico che aveva radici lontane nel pregiudizio religioso».
Questo pregiudizio verso gli ebrei è stato del tutto superato?
«Il pregiudizio è stato superato nei documenti e nel magistero dei Papi e dei vescovi (è di pochi giorni fa la visita del cardinale Angelo Scola alla sinagoga di Milano). Però il popolo cristiano deve prendere consapevolezza che non basta non avere più il pregiudizio, ma bisogna passare alla stima».
Questa esperienza di dialogo fra ebrei e cristiani può aiutare nel rapporto con il mondo islamico?
«Sì, il dialogo ebraico-cristiano che si è sviluppato negli ultimi cinquant’anni ha molto da offrire anche al dialogo con l’islam. Il mondo islamico ha i suoi problemi, ma non si può demonizzare tutto l’islam solo perché una sua parte ha abbracciato il fondamentalismo. Anche in questo caso servono studio e conoscenza per comprendere la complessità dei fenomeni».
Nelle riflessioni sulla Shoah ricorre il tema del silenzio di Dio. È un tema ancora aperto? Ci sono delle risposte?
«Sul silenzio di Dio mentre avveniva la Shoah c’è stata una profondissima riflessione teologica in ambito cristiano e soprattutto ebraico. Uno dei punti più paradossali di questa riflessione lo ha toccato il teologo Paolo De Benedetti, quando ha detto che in questo momento storico non è tanto l’uomo che ha bisogno di redenzione, ma è Dio che ha bisogno di tempo per giustificare tutto il male del mondo. Per De Benedetti, è come se Dio avesse contratto un debito nei confronti dell’umanità per tutta l’incredibile sofferenza che si è incarnata soprattutto nel dolore dei bambini innocenti, che hanno sofferto durante la Shoah».