Stephen Hill e Johnathon Busher sono una coppia gay inglese del West Midlands. Dopo 18 anni insieme, nel 2011, hanno deciso di farsi una famiglia. Sono andati in India e hanno stipulato un contratto con una clinica di Nuova Delhi, dove è stato utilizzato lo sperma di Stephen per fertilizzare un ovulo proveniente da un donatore che avevano scelto. L'embrione è stato poi impiantato in una donna che ha portato avanti la gravidanza. Quando sono nate le due gemelle, racconta il quotidiano britannico The Independent, c'è stato un «momento imbarazzante» prima che la madre surrogata accettasse di consegnarle alla coppia.
«Le abbiamo ricordato che si trattava di un affare, un accordo e che le bimbe stavano bene», ha detto Busher, «erano un po' troppo attaccate a quella donna. Poi abbiamo tirato fuori il contratto che avevamo firmato e alla fine siamo andati via dalla clinica con le bimbe in braccio. Eravamo felicissimi».
Altri clienti sono, invece, molto più indifferenti e in molti casi non vogliono neanche incontrare le madri surrogate dei loro figli. «Volevo picchiare un gay che mi chiese, dopo che nacque suo figlio, dove poteva trovare una balia», ha raccontato al Sydney Herald la ginecologa Anita Nayar. «Voleva che il suo bambino avesse le difese immunitarie che dà il latte materno, come se le indiane fossero schiave delle piantagioni che vanno in giro ad accudire bambini».
“Affare”, “contratto”, “prodotto”, “clienti”. Forse è il caso di abituarsi a questo linguaggio diretto e brutale perché quello della maternità surrogata è un vero e proprio commercio capace di prosperare, soprattutto in India, grazie alla totale assenza di regolamentazione e burocrazia. «Ci sono analogie con il commercio delle adozioni estere di vent'anni fa», avverte The Independent che qualche mese fa ha dedicato al tema un ampio dossier, «quando centinaia di bambini provenienti da famiglie povere dell'Europa orientale e dei paesi in via di sviluppo venivano “venduti” agli stranieri ricchi dell'Occidente».
Un imperialismo dei paesi ricchi che oggi si manifesta con lo sfruttamento senza scrupoli del ventre materno di donne povere dell'Asia.
La tecnologia a basso costo, i medici specializzati, la scarsità di burocrazia e di controlli e una fornitura abbondante di madri surrogate hanno reso l'India una meta privilegiata per il turismo della fertilità, attirando cittadini da Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia e Giappone, solo per citare alcuni Paesi.
Giro di vite per single e coppie gay – Nel gennaio scorso il ministero degli Interni ha annunciato una stretta sul rilascio del visto per chi si reca nel Paese con l'obiettivo di accedere alla fecondazione artificiale. I permessi per motivi medici, e non un semplice visto turistico come è accaduto finora, saranno rilasciati soltanto a coppie eterosessuali sposate da almeno due anni. Stop, quindi, a viaggi di single e coppie gay alla ricerca di un utero a buon prezzo dove impiantare l’embrione concepito in provetta. È la volta buona? Chissà. Una bozza di legislazione, in realtà, è ferma in Parlamento da tre anni e attende di essere discussa. L'Artificial Reproductive Technology Bill, questo il nome del disegno di legge, dovrebbe escludere le coppie omosessuali dalla surrogacy, dare potere alla giustizia indiana di perseguire penalmente una coppia che rifiuti il bambino surrogato se nato “difettato”, proibire le indiane sotto i 21 anni e sopra i 35 di divenire surrogate, impedendo la surrogazione oltre la quinta gravidanza, inclusi i figli naturali.
Problema mondiale – L'industria della maternità surrogata non riguarda solo l'India, dove la pratica è legale dal 2002, ma è un fenomeno globale. In America, dove è consentita dalla legge in numerosi Stati, più dell'80 per cento delle 443 cliniche della fertilità offrono anche il servizio dell'utero in affitto per un prezzo medio di 150 mila dollari. Solo nell’anno 2006, secondo il "Council of responsible genetics", furono 491 i bimbi nati da madri surrogate negli Stati Uniti.
Marilyn Crawshaw, docente di Politica Sociale all'Università di York, ha pubblicato invece i dati sugli ordini dei genitori inglesi nel Journal of Social Welfare: dai 47 casi nel 2007 si è passati a 133 nel 2011. In Gran Bretagna la maternità surrogata è legale ma costa troppo. Andando in India ce la si può cavare, in media, anche con 15 mila euro. In alcune zone, come a Guntur, nell’Andhra Pradesh, sulla costa orientale, anche con 6 mila euro. «È un vero e proprio traffico di bambini», commenta la Crawshaw, «di recente se n’è occupata anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità».
Due anni fa in Thailandia fu scoperto un vero e proprio racket. Una clinica del posto sequestrò il passaporto a 13 donne vietnamite, minacciando di non restituirlo se si fossero rifiutate di concedere il proprio utero. Le donne venivano pagate 5mila dollari per il loro utero, i clienti che si rivolgevano alla clinica ne sborsavano 32mila a pratica.
L'Eldorado indiano – Senza dubbio, però, è l'India il nuovo Eldorado della maternità surrogata. Il giro d'affari vale oggi due miliardi e mezzo di dollari. Ci sono oltre mille cliniche della fertilità che hanno prodotto fino ad oggi 25mila bambini, la metà dei quali, secondo la rivista Lancet, destinati al ricco Occidente. L'indotto è molto ampio: ci sono i reclulatori (che in media guadagnano 2.500 euro a gravidanza), gli avvocati per i contratti, gli spazi comuni dove le cliniche fanno vivere insieme le gestanti, gli hotel convenzionati che ospitano i genitori stranieri che vengono a controllare a che punto è l'ordine o a “ritirare” il prodotto finale.
Il pacchetto comprende diverse opzioni: si può richiedere una donatrice di ovuli con gli occhi chiari (da prelevare in Russia o in Inghilterra), oppure una seconda pancia in affitto (per aumentare le probabilità) a metà prezzo. La tariffa varia anche per le caratteristiche richieste: non fumatrice, timorata di Dio, non musulmana (una richiesta che fanno molte coppie di fede ebraica). Il contratto viene stipulato a gravidanza già iniziata, di solito nel secondo trimestre, quando si presume che si arriverà al parto. Una delle clausole prevede anche la possibilità di abortire se il bambino è malato o ha qualche malformazione.
Clienti vip – I clienti sono principalmente americani ed europei ma molti arrivano anche da Australia, Europa, Taiwan e Singapore. Il gruppo più in crescita attualmente è quello degli omosessuali occidentali. Non mancano però gli indiani della classe agiata. Famoso il caso, rimbalzato a lungo sui media, delle star del cinema di Bollywood Amir Khan e sua moglie Kiran Rao, che nel dicembre 2011 hanno dichiarato di avere avuto un figlio tramite maternità surrogata.
Le grandi star internazionali, da Robert De Niro e Dennis Quaid al cantante single Ricky Martin fino a Nicole Kidman ed Elton John, per citarne solo alcuni, hanno giocato un ruolo fondamentale perché la pratica, da elitaria, coinvolgesse anche la gente comune. Una delle pioniere è stata l'attrice Sarah Jessica Parker, protagonista del celebre serial tv americano Sex and the City e icona della sessualità libera, edonista ed emancipata dell'alta borghesia americana. Tra il 2008 e il 2009 insieme al marito, l'attore Matthew Broderick, decise di avere due gemelle per mezzo della maternità surrogata. Poi c’è una particolare categoria di clienti delle cliniche indiane: le cosiddette “too-posh-to push”, ossia “troppo eleganti per spingere”. Donne ricche che per svariati motivi sociali o professionali, o semplicemente per pigrizia, vogliono risparmiarsi lo stress da procreazione che deforma il corpo e i dolori del parto.
Sfruttamento e povertà – Molti di questi vip e cantanti che ricorrono alla surrogacy spesso sono impegnati, direttamente o come testimonial, in campagne a favore dei paesi più poveri del Terzo mondo e contro lo sfruttamento di donne e bambini da parte delle multinazionali. Ebbene, uno studio del Centre for Social Research (CSR) di Nuova Delhi uscito lo scorso aprile, Surrogacy Motherhood: ethical or commercial, ha svelato dati e storie davvero inquietanti di autentico sfruttamento. «Abbiamo trovato una donna alla quale erano stati dati 25 cicli di IVF. Un'altra è stata forzata ad aver impiantati quattro embrioni in una sola volta, contro la pratica internazionale di un embrione per volta, o al massimo, due», ha raccontato Ranjana Kumari, direttrice del Centro. È emerso, inoltre, che a molte delle madri surrogate viene fatto firmare il contratto ma non gli viene data copia e tra le clausole quasi sempre ce n'è una che prevede che in caso di complicazioni o morte della gestante il medico e la clinica non sono responsabili.
Le “surrogate” vengono confinate in ostelli per evitare il contatto con i figli o il marito che, se malati, possono trasmettere loro infezioni. Inoltre, se un bambino nasce “difettato” la donna non viene pagata. Non proprio un'eventualità remota visto che nelle fecondazioni in vitro il rischio di deformità è doppio rispetto a quelli naturali. Senza dimenticare la condizione sociale estremamente difficile e precaria di queste donne: poverissime, con il marito alcolizzato o che le costringe ad affittare l'utero.
«Il nostro studio», ha spiegato Kumari al Sydney Herald, «dimostra che si sta creando una mafia di trafficanti, con le donne trovate in località remote da agenti di reclutamento che hanno il solo fine di fare soldi. La vulnerabilità dei poveri viene sfruttata».
Nessuna giustizia per Sushma – Emblematico il caso di Sushma Pandey, 17 anni, di Mumbay, morta il 10 agosto 2010, due giorni dopo la donazione di ovuli, la terza in 18 mesi, alla clinica “Rotunda Center for Human Reproduction”, la “prima clinica gay, lesbian, bisexual e transgender friendly d’India” come si legge nella pubblicità.
Secondo le ultime linee guida emanate dall'Indian Council of Medical Research una donatrice di ovuli deve avere un'età compresa tra i 21 e i 35 anni. Di recente l’età è stata abbassata a 18 anni. Sushma, a 17, aveva già donato tre volte, la prima a soli 15 anni. Guadagnava 4.500 rupie (circa 66 euro) al mese lavorando in un deposito di rottami. A distanza di tre anni dalla sua morte, scrive il quotidiano Indian Express, non c'è nessuno indagato da parte della magistratura e la clinica non ha mai redatto un rapporto sul caso da consegnare agli inquirenti. Il compenso per chi dona gli ovuli è di 25mila rupie (371 euro). Poiché la Pandey ha donato tre volte, avrebbe dovuto guadagnare 75.000 rupie (1.114 euro). Il denaro però sembra essere scomparso. Come i responsabili della sua morte.