Per ora sono una piccola minoranza le donne che possono contare su un marito casalingo o un coniuge che divide al 50% il carico di casa e figli. Eppure uno studio dimostra che si tratta della strada giusta per garantire matrimoni stabili e coppie felici.
Quelle preziosissime ore trascorse dal neopapà, da solo, a cambiare pannolini, cantare la ninna nanna e cullare il suo piccolo, sono essenziali per salvare l’intesa tra marito e moglie.
È un ampio studio accademico, che ha preso in considerazione ben tredicimila coppie, a dimostrarlo.I padri che si occupano da soli dei figli, nel primo anno di vita, almeno qualche volta alla settimana, corrono un rischio inferiore del 40% di divorziare rispetto ai loro pari che lasciano la cura della prole alla moglie.
Responsabile della ricerca è la professoressa Helen Norman, docente di sociologia all’università di Manchester, che conferma che il fattore “papà coinvolto nei pannolini e nelle pappe” è un collante forte per le coppie che tiene anche al cambiare di altre varianti come il livello di reddito, l’estrazione etnica e le convinzioni rispetto ai ruoli di genere.
Secondo l’esperta è difficile individuare con precisione le ragioni per cui, con un marito coinvolto, il matrimonio è più forte, ma senza dubbio «padri che consentono alle neomamme di riposarsi e ritornare al lavoro garantendo loro indipendenza economica e la sensazione che la loro professione vale sono più apprezzati dalle donne».
Non solo. «Anche gli uomini, curando da soli i figli e scoprendo che sono capaci di farlo, si sentono più felici e costruiscono un rapporto migliore con i neonati. Tutti fattori che rafforzano le coppie».
Purtroppo coniugi maschi casalinghi part time o a tempo pieno, per ora, sono una rarità.
Fa eccezione Clarke Gayford, marito del primo ministro neozelandese Jacinda Ardern, che sta a casa a curare il figlio Neve Te Aroha o Duncan Hames, sposato alla deputata britannica Jo Swinson, vice leader del partito liberaldemocratico. I due parlamentari di Westminster condividono la cura dei figli Gabriel e Andrew.
È stata proprio la Swinson a proporre una nuova legislazione, che verrà discussa dal parlamento britannico a gennaio, che obbliga le aziende con oltre 250 dipendenti a pubblicare il numero di giorni di assenza per paternità che concedono ai lavoratori e anche il livello di stipendio che assicurano ai nuovi papà, se questi ultimi si assentano per curare i figli.
Alcune aziende britanniche, come la società di assicurazioni “Aviva” e il quotidiano britannico Daily Telegraph, hanno risposto all’iniziativa annunciando che garantiranno lo stesso numero di ore di maternità e paternità pagate a mogli e a mariti.
Sempre nel Regno Unito - paese dalla forte tradizione femminista, ma dove l’80% di uomini continuano a lavorare a tempo pieno anche dopo la nascita del primogenito - la commissione per la parità ha proposto che i mariti ottengano dodici settimane di paternità che possono usare soltanto per occuparsi dei figli neonati.
Diversi studi e ricerche dimostrano, infatti, che i maschi si sentono a rischio, dal punto di vista finanziario, culturale e professionale, se vanno di meno in ufficio. E anche i datori di lavoro sono meno disponibili se sono gli uomini, anziché le donne, a chiedere ore lavorative per curare i figli.