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Mattmark, quando i "clandestini" eravamo noi

31/08/2013  Una storia che ricorda quella del Vajont, ma aggravata dal razzismo verso gli emigrati italiani. Ne morirono 55, sotto una valanga. E i responsabili sapevano che il ghiacciaio stava smottando.

Erano le 16.35 di quarantotto anni fa quando a Saas Fee, una località turistica della Svizzera, il ghiacciaio dell’Allalin si staccò provocando una valanga. Travolse il cantiere per la diga del lago Mattmark, a oltre duemila metri di altezza, e 88 lavoratori, di cui 55 italiani, morirono sotto l’implacabile massa di ghiaccio, roccia e fango in quel 30 gennaio 1965.

Erano una parte dei tanti abitanti del Belpaese che avevano passato le Alpi con la valigia di cartone, per arrivare in una Svizzera che contava 970.000 stranieri, di cui 630.000 italiani, su 4 milioni e mezzo di abitanti (il 21%, una percentuale due volte e mezzo quella attuale in Italia).

«Non ci rimane che piangere», così commentò la notizia della strage il sindaco di San Giovanni in Fiore, il paese della provincia di Cosenza in cui erano nati sette degli emigrati. C’era chi era partito con la speranza di risparmiare una certa somma per comprarsi una macchina per fare il noleggiatore, chi perché voleva comprare gli arredi per lo studio medico della figlia, e chi perché aveva obbedito alla richiesta dei genitori.

Eppure, dopo il dolore per la strage, doveva ancora arrivare la beffa della giustizia. Si accertò facilmente che i responsabili dei lavori sapevano che il ghiacciaio aveva già dato segni di smottamento, ma che ciò non li aveva dissuasi a costruire le baracche del cantiere proprio nel punto più pericoloso, e che non avevano previsto nessun controllo per verificarne la sicurezza.

Il pubblico ministero fu clemente verso le 17 persone sotto accusa; non chiese il carcere, solo una multa dieci volte inferiore a quella prevista dal codice. La sentenza del Tribunale di Briga fu sconcertante: tutti assolti e spese processuali a carico dello Stato. Nel 1972, sette anni più tardi, arrivò il verdetto d’appello: tutti assolti e spese per metà a carico dei parenti morti. Che evidentemente avevano disturbato con la loro battaglia per la verità.

Non che le galere svizzere fossero inutilizzate: negli stessi anni, capitava che i giudici di Zurigo condannassero a tre mesi di carcere un immigrato italiano che, affamato, aveva mangiato uno spiedino di tre merli in un parco cittadino.

Come ha ben spiegato Gian Antonio Stella nel libro “L’orda, quando gli albanesi eravamo noi”, è riconosciuto da molti studiosi che la volontà di insabbiare la strage di Mattmark e l’assurdità del verdetto fossero legate all’ostilità xenofoba verso gli italiani, verso gli “tschingge”, come erano chiamati riprendendo il grido “cinq!” lanciato dai giocatori di morra.

Proprio in quegli anni si promuovevano tre referendum di fila per fermare l’orda degli “invasori italiani”, che però non disturbavano quando rischiavano la vita nei cantieri di Mattmark o facevano i lavori più umili che gli svizzeri non volevano più fare. Alla vigilia del referendum del 1974, su alcuni giornali elvetici ricorreva questa battuta: “Volete vedere che a vincere sarà la paura di dover pulire i cessi?”.

«Volevamo braccia, sono arrivati uomini», spiegava con un frase diventata celebre lo scrittore Max Frisch. Pensava anche ai 30mila bambini italiani, tecnicamente “clandestini”, costretti a vivere nascosti in stanze sovraffollate, senza poter uscire neanche per andare a scuola o per correre in un prato. In alcuni casi, spesso protette da parrocchie o comunità religiose, sorgevano delle scuole clandestine, andate avanti in Svizzera fino gli anni Ottanta. Capitava però che la denuncia di qualche vicino zelante portasse all’espulsione del bambino. Alle volte il genitore, per non perdere il lavoro, non riusciva ad accompagnare il figlio in Italia e lo affidava alle autorità italiane al di là della frontiera: è la storia di molti “orfani di frontiera” cresciuti alla Casa del fanciullo di Domodossola.

Nel frattempo, alcuni commentatori razzisti riempivano le pagine di giornali (Facebook ancora non esisteva). Come Schwarzenbach, un politico che raccoglieva le firme per il referendum contro gli italiani e spiegava: «Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano».

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