Lo “ius soli” divide la maggioranza. Il tema cavalca manovre pre-elettorali, fa appello alla pancia del paese e a un immaginario collettivo spesso basato su informazioni parziali o volutamente distorte.
“Il sistema politico italiano sta arretrando, voltando la faccia dall’altra parte rispetto a una domanda di cittadinanza e di inclusione dei nuovi italiani”, commenta il professor Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dei processi migratori all’università di Milano. “Sono generazioni che si affacciano persino con entusiasmo al mondo della partecipazione civica, reclamano la loro italianità, e il nostro sistema, per ragioni sostanzialmente simboliche oltre che di convenienza elettorale, sta decidendo che non si può diventare italiani, se non attraverso lunghi e accidentati percorsi”.
Chi sono le seconde generazioni in Italia?
“Sono quelle che si stanno affacciando all’età adulta. Fino a pochi anni fa parlavamo di bambini, poi di ragazzi, adesso cominciamo ad avere dei giovani che vanno all’Università, cercano lavoro, vogliono partecipare da un punto di vista sociale e politico. Siamo di fronte a un cambiamento non solo delle seconde generazioni, ma persino dell’identità demografica e sociale della nostra società. Dovremo abituarci a pensare che si può essere italiani avendo gli occhi a mandorla, la pelle scura, portando il velo e praticando religioni diverse da quella cattolica in cui siamo cresciuti. La sfida riguarda anche noi e le nostre istituzioni: concepire un’italianità più elastica, più inclusiva, capace di tenere conto anche delle molteplici, sfaccettate appartenenze e identificazioni di questa nuova generazione di italiani”.
Eppure la legge sulla cittadinanza non verrà messa in discussione perché non ci sono i numeri…
“Un vero controsenso. C’è una disconnessione tra volontà politica e risultati effettivi che si otterranno con questa marcia indietro. I giovani di seconda generazione spesso reclamano la cittadinanza italiana, il passaporto, per poter diventare cittadini del mondo. Negando la cittadinanza li si tratterrà in Italia anche quando questi ragazzi, come tanti loro coetanei, dopo gli studi vorrebbero cercare fortuna in altri paesi”.
Lei parlava di ragioni simboliche ed elettorali. Nel volume che ha appena pubblicato, intitolato appunto “Migrazioni” (ed. Egea), sfata una serie di luoghi comuni, come per esempio quello dell’invasione musulmana…
“Intanto le migrazioni in Italia sono stazionarie da alcuni anni, sono persine diminuite leggermente le nascite di bambini da genitori immigrati. La crisi economica sta piegando la propensione generativa delle famiglie immigrate. E questo è un primo dato che dice della distanza tra le rappresentazioni e la realtà effettiva dei numeri. Inoltre i richiedenti asilo e rifugiati, di cui tanto si discute, sono circa 250mila su 5 milioni e mezzo di immigrati, quindi piccola minoranza. E gli immigrati in Italia sono prevalentemente donne, prevalentemente europei e originari per lo più da paesi di tradizione cristiana. Inoltre è più quello che versano come contributi e tasse al welfare italiano di quello che prelevano. Se riuscissimo a prendere in maggiore considerazione alcuni dati di fondo potremmo affrontare in modo più sereno le sfide che ci stanno davanti. Infine, va ricordato che la cittadinanza non viene data immediatamente alla nascita e quindi la paura è strumentale”.
Ma la paura da cosa nasce a suo parere?
“A mio parere il sentimento che porta una fetta cospicua di italiani, forse una maggioranza, a non volere la riforma del sistema, credo nasca dalla trasformazione dell’identità nazionale, del concetto di italianità. Molti di noi sono ancora fermi all’idea ottocentesca di nazione, quella del Manzoni: “Una d’arme, di cuor, d’altare, di sangue”, l’idea che per essere italiani si debba condividere una sorta di identità etnica, ancestrale. Invece nel mondo di oggi la cittadinanza è più elastica e comprende il fatto che, come dicevo, avremo carabinieri con la pelle scura, delle guardie di finanza magari donne cinesi..una composizione della società, e quindi anche delle sue istituzioni, in cui siamo sempre più destinati a essere italiani al plurale. Il problema è come includere questi nuovi italiani, non escluderli da questo paese in cui comunque vivono, si formano e diventeranno adulti”.
Quando si parla di seconde generazioni in altre paesi europei, come la Francia, si dice che è lì che si è annidato il virus del fondamentalismo. Perché?
“Anche qui guarderei i numeri. In modo un po’ brutale, un grande sociologo, Giddens, dice che sono molto più pericolosi gli incidenti stradali del terrorismo. I numeri sono piccoli, in realtà. Il danno che fanno è grande, l’impatto mediatico ed emotivo grandissimo, ma il fatto che ci sia qualche centinaio di giovani radicalizzati e persino arruolati nell’Isis non significa che sia fallita l’integrazione delle seconde generazioni.
Detto questo certamente c’è un problema in paesi vicini a noi: la cittadinanza è un passo avanti, ma non è immediatamente un passaporto che produce inclusione sociale. La Francia è forse il paese che maggiormente sconta la distanza tra un’idea molto enfatica di cittadinanza repubblicana, intesa come uguaglianza, condivisione di un’idea di nazione, e poi le opportunità effettive che i giovani trovano nella formazione e nel lavoro. La promessa di piena inclusione nella società nazionale repubblicana si scontra con i fallimenti effettivi dei processi individuali di integrazione, con la reclusione nei ghetti urbani. Questi giovani sono francesi sulla carta, ma non ottengono una risposta alle loro attese di piena inclusione sociale nella società francese.”
E in Italia?
“In Italia rispetto a questo quadro c’è qualcosa che ci salvaguarda: in primo luogo l’aspetto demografico, sono relativamente pochi i giovani che diventano adulti e quindi che sono esposti a processi di radicalizzazione ed estremizzazione. Sono numeri bassi, possiamo salvarci lavorando nelle scuole, nell’educazione, ma certo lo stop alla legge sulla cittadinanza non è un segnale positivo in questo senso.
In secondo luogo abbiamo pochi ghetti urbani, tra l’altro piccoli, come effetto di politiche abitative che non hanno dato molto in termini di edilizia sociale. In altri paesi i ghetti sono in realtà il frutto negativo di politiche pubbliche che avevano buone intenzioni, cioè dare una casa alle famiglie che ne avevano bisogno. In Italia però abbiamo situazioni abitative precarie, spesso molto marginali e nell’illegalità delle occupazioni, una situazione che sta preparando un panorama nelle grandi città poco promettente.
E’ invece risorsa positiva la dispersione della popolazione immigrata sul nostro territorio, con una concentrazione urbana molto inferiore rispetto a quella di altri paesi. Così come in positivo citerei il dinamismo del volontariato, della società civile, l’accoglienza dei nostri oratori dove spesso i ragazzi di origine immigrata trovano uno spazio. Qui abbiamo una risorsa che va incrementata anche con la partecipazione attiva dei giovani immigrati.
Infine cominciamo ad avere ricerche sui giovani immigrati nel volontariato, nella donazione di sangue, e ora anche nella partecipazione al servizio civile. Su questa dimensione attiva, credo occorra investire nel futuro”.
Le seconde generazioni come vivono il rapporto con la religione e con le Chiese?
“Storicamente le seconde generazioni sono più religiose delle prime, che arrivano un po’ allo sbando, devono arrabattarsi per riuscire a campare, a costruire qualcosa. Le seconde trovano nelle istituzioni religiose, spesso cattoliche, spazi di crescita, di educazione, di gioco, di divertimento, di impegno sociale e anche politico. Le Chiese negli Usa e in altri paesi sono state il luogo di formazione di attivisti sociali e politici di origine immigrata o di appartenenti alle minoranze. Negli Stati Uniti questo discorso è ancora vero, in Europa, invece, paga il conto della secolarizzazione. C’è un panorama più frastagliato, in cui sono più religiosi i giovani arrivati da poco. Quelli cresciuti qui sono più esposti a dinamiche di secolarizzazione, tendono ad avere atteggiamenti religiosi più simili ai coetanei italiani. Certamente, ribadisco, è fondamentale il ruolo degli oratori come realtà di aggregazione. Tanti ragazzi di origine musulmana spesso sono molto presenti nei centri estivi o negli oratori cattolici, anche ponendo questioni e domande nuove alle nostre Chiese”.
(Foto in alto: Ansa)