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martedì 10 settembre 2024
 
INTERVISTA ALL'AUTORE
 

In un racconto giallo scienza e paranormale al tempo dell'Unità d'Italia

06/02/2017  In "Dal diario di Domitilla" lo scrittore Mauro Falcioni, marchigiano trapiantato da molti anni in Germania, racconta nella forma di un thriller, attraverso gli occhi di una ragazzina appassionata di astronomia nella metà dell'Ottocento, il rapporto sempre affascinante e attuale fra esperienza empirica e mondo dell'occulto.

La copertina del racconto giallo di Mauro Falcioni.
La copertina del racconto giallo di Mauro Falcioni.

Senigallia 1862: nella cittadina costiera dell'ex Stato pontificio, in un'Italia appena unificata, Domitilla, diciassettenne innamorata delle "scienze, la musica e il firmamento stellato" - nipote della prima donna astronoma all'osservatorio del Campidoglio dell'Università La Sapienza di Roma - ripercorre in prima persona una sconvolgente vicenda accaduta nella casa della sua famiglia, dove ha trovato ospitalità uno strano terapeuta particolarmente dedito al paranormale. Nel racconto giallo Dal diario di Domitilla (Ventura edizioni), fra intrighi, segreti di famiglia e un omicidio, lo scrittore Mauro Falcioni, nato a Fabriano 49 anni fa, affronta l'affascinante dibattito sul rapporto fra scienza e occulto.    

 

Mauro Falcioni, vivi da molti anni in Germania. Puoi raccontare il tuo percorso biografico?

«Vivo in Germania da quasi venticinque anni e fra un po' oltrepasserò la soglia che potremmo chiamare "della mezza vita". Vale a dire che fra non molto gli anni trascorsi a Monaco di Baviera saranno più di quelli trascorsi in Italia. Più tempo passa, però, più mi sento legato al Paese in cui ho trascorso la prima metà della mia esistenza. Innanzitutto perché torno spesso e in questi anni i legami con le persone in Italia non si sono allentati, ma rinforzati. E poi perché quanto avviene nell’infanzia, a cominciare dall’apprendimento della lingua madre, nonché tutto ciò che ci accade più o meno fino ai vent’anni d’età, ci condiziona profondamente e per sempre, nel bene e nel male. Insomma, la mia cara Italia me la porterò sempre dentro. Sono arrivato in Germania nel 1993, facendo un dottorato di ricerca in filosofia. Per qualche anno ho fatto il giornalista al Bayerischer Rundfunk e ora lavoro come traduttore in una grande casa automobilistica. In un certo senso, spinto dalle esigenze pratiche, mi sono allontanato sempre di più dai miei sogni e dalle mie aspirazioni. Solo in un certo senso, però, perché ho sempre desiderato scrivere un lungo romanzo e non sono mai stato così vicino a questo obiettivo come ora, dopo un percorso piuttosto contorto, con varie fratture biografiche e qualche dolorosa battuta d’arresto».

 

Come mai il legame con Senigallia, cittadina della costa marchigiana, e in quel determinato periodo storico, il 1862?

«Il mio racconto, nella sua versione originaria, è nato qualche anno fa, in un periodo in cui stavo cercando di capire quale fosse la mia "voce" di narratore. Nei miei esercizi di stile avevo steso racconti di tipo completamente diverso per linguaggio, situazioni e sviluppo. Alcuni erano realistici come un reportage giornalistico, altri hard boiled, disincantati e spietati. Volevo tentare anche un racconto apertamente e sinceramente romantico. Di lì la scelta della protagonista, una giovane ragazza, del periodo storico, metà Ottocento, dello stile narrativo, un diario, e dell’ambientazione, una villa di campagna non troppo distante da una città di provincia: Senigallia. Lì io ho trascorso parecchie estati della mia infanzia e della mia adolescenza, quindi ho un forte legame con la città, la sento mia e la conosco abbastanza bene. Inoltre Senigallia, pur essendo solo un piccolo centro, negli anni in cui è ambientato il racconto aveva un importante ruolo a livello nazionale e internazionale in quanto città natale di Pio IX, che in quel periodo si trovava nel mezzo di un pontificato lunghissimo e molto tormentato».

 

Sei particolarmente interessato alla storia della metà del XIX secolo, gli anni in cui si è realizzata l'unità d'Italia?

«Sì, quegli anni esercitano su di me un fascino particolare e non privo di ambiguità. Sono gli anni in cui è nato un linguaggio simbolico fatto di inni e bandiere che da ragazzo non capivo e ritenevo soltanto polveroso e retorico, di cui poi ho sempre diffidato e che però, ho constatato con stupore e preoccupazione, ha vissuto un’inaspettata rinascita durante la presidenza Ciampi. Non è questo che mi interessa di quell’epoca perché continuo a pensare che una persona meno idee ha, più sventola bandiere. Ho iniziato ad amare quel periodo storico, e a scoprirne la straordinaria ricchezza, solo quando ho letto il Gattopardo. Il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa permette anche di intuire, tra l’altro, quali fossero le vere forze in campo al momento della nascita dell’Italia unita».

 

Il linguaggio che usi nel racconto è ricercato, forbito, elegante, d’altri tempi per l'appunto: come sei arrivato a questa scelta stilistica?

«Per Il diario di Domitilla il linguaggio è importante almeno quanto la trama. Mi sono concesso il lusso di usare termini desueti e letterari che speravo riuscissero a rievocare un’epoca lontana e a dare corpo a un racconto, come accennavo prima, dichiaratamente romantico, con un’attenzione perfino eccessiva e quasi esaltata ai sentimenti. Probabilmente anche perché vivo all’estero da tanto tempo rintracciare nei libri e nella memoria i termini di cui si serve Domitilla è stato come andare per boschi a raccogliere funghi. Hai dei luoghi prediletti dove sai di poter cercare, ma non c’è nessuna garanzia che tornerai col cesto pieno, così ogni fungo trovato è una piccola rivelazione».

 

Attraverso un “giallo” e con i toni leggeri di un racconto, affronti un tema importante e profondo: il rapporto tra scienza e paranormale, l’equilibro tra verità scientifica e occulto. A un certo punto Domitilla dice: “Dall’aldilà non giunge mai nulla, nessun segno, nessun messaggio, nessuna voce. Solo silenzio”. In fondo, il giallo appare un pretesto per delineare un affresco storico-sociale e una problematica molto dibattuta. E’ così?

«Il “giallo”, come formula narrativa è più di un pretesto, è una vera passione. Intendo soprattutto divertire e creare suspence. Se ciò non riesce, allora i miei sforzi non hanno portato a nulla. Però è vero che di solito i miei testi possono essere letti su più livelli, quindi in questo senso hai perfettamente ragione. Domitilla, in particolare, si affatica su un tema che mi sembra sia ancora oggi di centrale importanza come lo era già allora. L’occulto era e resta la patria dei ciarlatani. Se però i predicatori fasulli del paranormale hanno così buon gioco nel radunare attorno a sé tante persone una ragione deve pur esserci. A mio avviso il problema è questo: la vulgata che si respira nell’aria ci ha abituati a pensare che l’occulto sia semplicemente l’opposto della scienza. Però il genio creatore della fisica classica, Isac Newton, era un avido lettore di testi alchemici e iniziatici. E uno dei padri della fisica quantistica, Niels Bohr, teneva appeso sopra l’ingresso della sua casa di campagna un ferro di cavallo. A chi gli chiedeva se veramente credesse che quell’amuleto potesse portargli fortuna, lui rispondeva così: “Mi hanno detto che funziona anche se non ci si crede”. Una battuta di spirito che manda in cortocircuito la banalità della contrapposizione tra scienza e non scienza almeno quanto le strane letture di Newton. Il problema è, a ben vedere, semplicissimo: la scienza ha il limite di lasciare senza risposta le nostre domande più impellenti, quelle sulle cose ultime e sulle cose prime. Più si riduce la razionalità al metodo scientifico-matematico o, peggio, alla sua ricaduta tecnologica, più si porta acqua al mulino di chi offre risposte da quattro soldi alle questioni di fondo della nostra esistenza, a cominciare da quella escatologica. La citazione di Domitilla che tu ricordi sul silenzio dell’aldilà mi sta particolarmente a cuore perché la vicenda di questa giovane fanciulla all’indomani della nascita dell’Italia, in definitiva, è una riflessione sulla morte, vale a dire sul silenzio assoluto e totale in cui scompaiono inesorabilmente i nostri cari e in cui verremo inevitabilmente riassorbiti noi stessi. Un silenzio senza scampo, che si sottrae a ogni riflessione scientifica, ma fa, oltre che da capolinea, anche e soprattutto da sfondo permanente al caos e al disordine delle nostre vite, agli inghippi della quotidianità, ai drammi di chi tenta il tutto per tutto, alla nostra ricerca disperata e folle della felicità».

 
 
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