È lo scienziato che l’America ci invidia. «Ma scriva che sono anche un musicista, così strappiamo un sorriso a chi legge», si affretta a precisare Mauro Ferrari che, tra le altre cose, si definisce pure un «cattolico impenitente: con tutte le ragioni che avrei per non essere cristiano (ne trovo una al giorno!), non sono ancora riuscito ad allontanarmi dalla Chiesa cattolica!». Padre fondatore della nanomedicina oncologica, membro della Pontificia Accademia per la Vita, ex presidente dell’Erc (European Research Council) nonché docente presso l’università di Washington − ma questa è solo una minima parte del suo sterminato curriculum vitae −, Ferrari è padovano d’origine e texano d’adozione: dal 1987 si è trasferito in America, dove si è distinto nel campo della ricerca oncologica (per inciso, sì, ha anche una band, Rhythm & Blues Band). A 63 anni ha dato alle stampe il singolarissimo libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande: un corposo volume destrutturato, che gioca con le parole e i piani temporali, e mette in campo un binomio inedito. Anziché parlare di fede e ragione, Ferrari si interroga su scienza e… amore.
Come nasce il suo libro?
«Arriva un momento in cui inizi a pensare con più urgenza al significato delle cose che fai e del modo in cui le fai. Queste domande sono emerse con forza nel momento in cui ho deciso di dimettermi dalla presidenza dell’Erc. Era una posizione importante e prestigiosa, che coronava il mio percorso lavorativo. Tuttavia il modo con cui il sistema scientifico europeo stava affrontando il Covid mi ha fatto capire che avevamo due modi diversi di intendere la medicina».
Lei è no vax?
«No, assolutamente: sono stra pro-vaccino. Semplificando, la divergenza era di natura strategica: a mio avviso sarebbe stato corretto prevedere delle risorse specifiche per realizzare programmi ad hoc sulla pandemia, mentre per il Consiglio non era necessario spostare soldi già allocati altrove. Dimettermi è stata una scelta dolorosa ma mi ha fatto riflettere sul significato della vita. Ho quindi iniziato a scrivere i miei pensieri e il libro ha finito letteralmente per scoppiarmi in mano. È un viaggio introspettivo dove, senza sofismi accademici, racconto una serie di eventi che mi hanno portato a rispondere alle domande esistenziali».
Mi spoileri il finale: qual è per lei il senso della vita?
«Non sono nessuno per dire certe cose, né ho scritto il libro per convincere qualcuno. Detto questo, le posso dire la mia risposta personale: mi sento più vicino al significato della vita quando riesco a trasformare il dolore in qualcosa di utile per le persone bisognose, che magari non conosco nemmeno. La cosa che ci fa davvero stare bene non sono le ricchezze né tanto meno la salute ma il significato. Se ti senti dentro qualcosa con un senso, anche nella malattia e nel dolore trovi una luce che ti guida rendendoti la versione migliore di te stesso».
Per questo ha scelto di fare il medico?
«All’inizio è stato un ripiego! (ride, ndr). Avendo fallito nella musica e nello sport − in almeno due discipline! − mi sono detto: “Bah, mi dicono di fare l’università, magari fare l’insegnante mi viene bene!”. La mia meta era il posto fisso: docente di matematica alle medie. Poi ho avuto la possibilità di andare in America a Berkeley: la più grande università del mondo! Ho colto l’occasione ed è andata bene. Divenni professore, misi su famiglia, e pensai: “Ok, sono a posto”. Poi invece mia moglie Marialuisa si è ammalata di tumore ed è morta a soli 32 anni. Avevamo tre figli, il maggiore di 6 anni. Lì mi si è accesa una luce».
In che senso?
«Questa enorme tragedia mi ha spinto a chiedermi se davvero mi interessasse quello che stavo facendo. Per carità, il lavoro era bello, con la matematica scopri mondi meravigliosi, ma capii che se non c’era dentro la sfida contro il cancro non mi avrebbe dato davvero soddisfazione. Vede, ci sono tanti motivi per cui uno può dedicarsi alla scienza. C’è chi lo fa per il puro piacere della conoscenza, ed è una cosa nobilissima. Però è ancora più bello quando fai ricerca per un motivo e lo diventa ancora di più quando ti poni la domanda fondamentale, ossia: come fai a decidere che stai facendo del bene?».
Che cosa si è risposto?
«Bisogna scavarsi dentro e trovare l’emozione fondante dell’uomo, alla quale vale la pena affidarsi: l’amore. Lo stra-sapevamo già tutti, va bene, ma parlare di amore in un contesto scientifico mi è sembrato una cosa importante da fare. Abraham Lincoln diceva: “Quando faccio del bene mi sento bene, quando faccio del male mi sento male e questa è la mia religione”».
Quindi, prima ancora che su fede e ragione, bisogna riflettere sul binomio scienza e amore?
«Quello che conta è l’amore. Il resto sono solo dettagli tecnici. Le dirò di più: secondo me chi fa scienza senza amore è un soggetto pericoloso. Ma poi, come si fa a farla senza amore?».
Per esempio le case farmaceutiche hanno ben altri scopi…
«Questo è un luogo comune. Lavoro molto con le case farmaceutiche e ho conosciuto svariate persone impegnate per aiutare il prossimo e fare la differenza nel mondo. Il sistema capitalistico non è necessariamente basato sul male. A chi sogna l’abolizione dei giganti farmaceutici rispondo chiedendo di citarmi un farmaco che, negli ultimi 100 anni, abbia fatto la differenza e che sia stato realizzato da una Ong… Non ne troverà. Tutti i grandi recenti progressi scientifici si basano su un sistema distributivo capitalista».
Torniamo a lei: come si è avvicinato alla fede?
«Come tutti gli italiani, ho ereditato la fede calcistica dal papà e la religione cattolica dalla mamma. Era molto devota. Crescendo, smisi però di andare in chiesa. Ricordo che io e Marialuisa eravamo giovani e scapigliati: ci divertivamo, avevamo altre cose in testa, e non ci interessavamo della religione. Tuttavia, quando ero in trasferta per lavoro, finivo per andare in chiesa. Così, un giorno lo ammisi a mia moglie: “Quando non ci sei, io ogni tanto... vado a Messa”. Lei mi disse che faceva lo stesso! Ci avvicinammo così alla Chiesa, e questo è stato un miracolo perché quei contatti furono poi decisivi quando lei si ammalò. Erano luterani, ma io tornai a essere cattolico grazie a loro».
Papa Francesco l’ha coinvolta nella Pontificia accademia per la vita (Pav): quanto questo organismo può fare la differenza?
«Negli ultimi anni i colossi della tecnologia si sono rivolti alla Pav per avere degli input. Poi è chiaro che la decisione la prendono in autonomia, ma intanto hanno cercato un confronto… D’altronde, oggi come oggi, dove trovi una guida? La grande intuizione di Francesco è stata quella di rafforzare il corpo accademico aprendolo a laici, non necessariamente cattolici. C’è di tutto: agnostici, atei, musulmani… È un approccio molto aperto e tollerante di punti di vista divergenti».
Qual è la sua posizione in merito all’eutanasia?
«Sposo in toto la posizione della Chiesa. Orrori come i polmoni d’acciaio non esistono più e abbiamo tutti i farmaci per lenire la sofferenza. Si tratta di usarli e di farlo nel modo giusto, ma la maggior parte dei medici non conoscono i farmaci a disposizione. È un problema di comunicazione e formazione. Io lavoro con i malati terminali e le assicuro che c’è una voglia di vita pazzesca».
IL LIBRO
LA SUA INCREDIBILE AVVENTURA UMANA E PROFESSIONALE
Dalla perdita della prima moglie alle gioie dei cinque figli e del secondo matrimonio, dall’abbandono del padre alle profonde amicizie umane e animali: Infinitamente piccolo, infinitamente grande (Mondadori, 2022) racconta l’affascinante avventura umana e scientifica di Mauro Ferrari. Attualmente Ferrari è presidente e amministratore delegato di BrYet Pharma, consigliere d’amministrazione di Arrowhead Pharmaceutics e professore di Scienze Farmaceutiche all’Università di Washington.
CHI É
Età 61 anni
Professione Scienziato
Famiglia Ha 5 figli
Fede Si definisce «cattolico impenitente»