A quattro anni da Terraferma
e a due dal successo di Max
20, Max Pezzali torna con
un nuovo album, Astronave
Max (Warner), il quarto
di soli inediti, che il cantautore
porterà in tour da
settembre. È un Max ottimista
e introspettivo, più maturo e
consapevole, che fa ordine nella vita
e riparte dalla sua Pavia, dove da quasi
un anno è tornato a vivere.
Quella di Max era la Pavia di un
ragazzino che nella soffitta di casa,
dietro il negozio di fiori dei genitori,
si divertiva a montare e smontare modellini
di aeroplani, sognando cowboy
e rincorrendo un futuro fantastico insieme
all’amico e compagno di banco
Mauro Repetto.
Piacevole scoprire che
da allora nulla è cambiato, che quel ragazzo
oggi un po’ nostalgico ma sempre
ottimista, pieno di sogni e speranze,
è ancora lì. Ieri come oggi. Pur con
una vita spinta al massimo nel mezzo.
E un figlio, Hilo, di quasi sette anni, per
il quale è un vero e proprio supereroe.
- Astronave Max è il nuovo album. Perché questo titolo?
«Le canzoni sono nate in un arco temporale lungo ed era difcile trovare un comune denominatore: l’astronave mi sembrava il contenitore adatto. E poi c’è la mia grande passione per le missioni Apollo e l’idea di allontanarsi per vedere la Terra nella sua interezza. Metaforicamente, è guardare i problemi dal di fuori che aiuta a superarli».
- Il viaggio, tema che torna in numerosi testi, cosa signica per lei?
«Ho sempre pensato che il viaggio mi potesse affrancare dalla monotonia della vita di provincia. Salvo rendermi poi conto che più tento di allontanarmi più mi ritrovo qui: punto di partenza e di arrivo coincidono. Sono il prodotto assoluto di questi luoghi, qui c’è la mia essenza. Il viaggio è esplorazione, ma se non hai un posto dove tornare non serve esplorare».
- Oggi chi è Max Pezzali?
«Uno che deve iniziare da capo ogni volta, che si sente ancora un ragazzo inadeguato, ma quel suo sentirsi inadeguato è il motore per fare sempre qualcosa di nuovo.»
- Ma il singolo È venerdì trasuda di spirito leopardiano...
«Torna il tema dell’attesa, ma mentre in Il sabato del villaggio c’è una sorta di pessimismo cosmico per cui è soltanto l’attesa della felicità che porta felicità, in sé effimera, il mio venerdì è una decompressione dell’ansia della settimana».
- Il suo pubblico è ormai diventato trasversale...
«Ho recuperato la vecchia visione del pop come intrattenimento. Oggi si tende ad avere una visione monolitica. Io invece, spazio e mischio cose diverse».
- Difficile individuare in questo nuovo album il “lento d’amore”, erede di una tra le sue canzoni più scaricate,
L’universo tranne noi...
«Perché non c’è. Quello era un pezzo
angosciato e angosciante, disperato.
Qui si sente di più l’ottimismo. Ma ho
scritto qualcosa, che non ho fatto in
tempo a finire, che potrebbe proseguire
in quella direzione. Arriverà dopo il
tour, insieme a un nuovo album in cui
racconterò la contemporaneità».
- Suo figlio che cosa pensa del suo
lavoro?
«Lo sta scoprendo adesso: è consapevole
ma non si esalta. In compenso
si diverte da morire a seguirmi ai concerti
e nelle stanze d’albergo. Ha da
poco iniziato a fare due accordi con
la chitarra e ha un senso innato della
melodia. E da nativo digitale è lui a
scattarmi le foto con i fan. Mi diverte
quando mi chiede: “Ma quello perché
ti ha fermato? Lo conosci?”».
- Niente di grave, altra traccia
dell’album, parla del rapporto genitori-
figli. Lei è un padre apprensivo?
«Lo ero di più prima. Sono diventato
fatalista quando mio figlio ha rischiato
di morire, a soli quattro anni
e mezzo, per la sindrome di Kawasaki,
una rara forma di vasculite che può
provocare aneurismi, ictus e infarti e
che si preannuncia con febbre altissima
e deliri. L’unica cura è una terapia
di gammaglobuline, che a lui hanno
fatto arrivare in elicottero, di notte,
perché in ospedale non ne avevano
più. Oggi deve vivere sotto stretto controllo
dal punto di vista cardiovascolare.
L’unica associazione che in Italia
si occupa di questa malattia è “Gli
amici di Lapo”, collegata con l’ospedale
Meyer di Firenze.
- “Col senno di poi”, tra l’altro titolo
della sua sesta traccia, cosa non rifarebbe?
«Rifarei tutto, assolutamente
ogni cosa, compresi anche gli errori.
Il prodotto di quello che siamo è il
percorso che abbiamo fatto e che, fino
a prova contraria, rimane il migliore
possibile».