Le recenti vicende riguardanti le frequentazioni
femminili del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi,
le affollate manifestazioni di piazza delle
donne italiane per riaffermare la propria dignità e la riapertura
del dibattito sull’immagine della donna hanno
riacceso i riflettori sulla rappresentazione della figura
femminile da parte dei media. Fra vecchi stereotipi e
nuove identità trasversali, essa non si è ancora affrancata
da una rappresentazione ampiamente subalterna rispetto
all’universo maschile, né tantomeno da una connotazione
strumentale che ancora troppo spesso rappresenta
la donna come oggetto di piacere agli occhi degli
uomini.
Una sintetica ricognizione sull’immagine prevalente
in alcuni comparti della produzione mediatica
consente di evidenziare gli eccessi nella direzione di cui
sopra e di ribadire la necessità di un radicale cambio di
atteggiamento. I settori della pubblicità, dell’informazione
e dello spettacolo sono quelli in cui maggiormente
emergono le distorsioni dell’immagine femminile.
Seducente, ammaliante, generalmente poco vestita o
completamente nuda: è la donna in pubblicità, una figura
che continua a essere connotata secondo modelli ancorati
ad antichi pregiudizi di genere. Tra quelle che occupano
le pagine delle riviste patinate, la pubblicità della
moda è una delle più invasive. L’identità femminile
che essa propone ha conosciuto una profonda trasformazione,
con un incremento dell’attenzione verso modelle
sempre meno anonime e sempre più capaci di diventare
personaggi. Delle top model più famose si sa tutto,
abitudini, affetti, difetti e manie ed entra in gioco un
meccanismo di reciproco beneficio: la pubblicità guadagna
dalla notorietà di queste donne e loro, grazie alla fama
acquisita, possono chiedere cachet di tutto rispetto o
guadagnarsi ruoli in altri settori dello show business.
Caratteristica peculiare delle campagne pubblicitarie
dedicate alla moda è l’attenzione al corpo della donna,
con il risultato che la presentazione dei capi d’abbigliamento
– che dovrebbero essere l’oggetto privilegiato
del messaggio – cede il passo
a un insistito voyeurismo
sulle forme fisiche
delle protagoniste. In taluni
casi l’identità sessuale
femminile è fortemente
esaltata da una connotazione
erotica che poco lascia
all’immaginazione, in
altri è altrettanto fortemente
travisata da rappresentazioni
giocate sull’ambiguità
estetica.
In generale, qualunque
sia il prodotto pubblicizzato,
è evidente la tendenza
a rappresentare la figura
femminile non come soggetto
che ha la funzione di
presentare l’oggetto in
questione, ma come vero
e proprio emblema di esso;
la donna non è più colei
che offre e “garantisce”
ciò che viene proposto,
ma diventa lei stessa l’oggetto
da conquistare. Nei
prodotti per l’uomo, la
rappresentazione della
donna oggetto, metafora
del desiderio, è decisamente
prevalente. Gli
esempi più eclatanti si riscontrano
nella pubblicità
di automobili, in cui l’accostamento
tra il mezzo e
la donna insiste spesso su
un rapporto parallelo di
seduzione e fascino con
l’auto che assume caratteristiche
maschili e attrae la
donna, o con lei che incarna
l’auto come oggetto
del desiderio maschile.
La connotazione strumentale
emerge con evidenza
in tutti i messaggi in
cui si sfrutta la nudità femminile
in maniera ammiccante
e seducente. Se il ricorso
al nudo può essere
parzialmente giustificato
quando si reclamizzano
prodotti di bellezza o per
la salute del corpo, esso è
assolutamente gratuito
quando serve a lanciare,
per esempio, un’acqua minerale
oppure un paio di
scarpe sportive. Frequente
è anche l’accostamento
fra il nudo femminile e i
gioielli o gli oggetti di un
certo valore. Non è questione
di vacuo moralismo,
ma la domanda sorge
spontanea: a che cosa
serve mostrare un corpo
svestito nella pubblicità di
oggetti che con la nudità
nulla hanno a che fare?
Oltre all’immagine dominante
della donna oggetto,
vi sono altre due
connotazioni dell’identità
femminile che, pur in misura
nettamente inferiore,
si ritrovano nelle inserzioni
commerciali: la donna
“angelo del focolare” e la
donna emancipata. La raffigurazione
della donna
come padrona di casa, brava
moglie e madre amorevole,
viene generalmente
accostata ai prodotti che
hanno a che fare con la vita
domestica, presentati
come indispensabili per
l’armonia coniugale e familiare.
Peraltro, la frequente
immagine di mamme
e mogli sorridenti, già
truccate e pettinate a dovere
fin dal risveglio, è tanto
affascinante quanto lontana
dalla realtà concreta.
La donna in carriera, capace di superare qualunque
presunta inferiorità di genere
e di affiancarsi in tutto
e per tutto all’uomo, è
rappresentata come capace
di assumere finalmente
ruoli di primaria importanza
all’interno della società.
Ma anche questa immagine
sembra frutto in
larga misura di una costruzione
culturale che non
trova piena corrispondenza
nella realtà.
La donna patinata e seducente
scompare bruscamente
nell’informazione,
genere in cui prevale invece
la connotazione della
donna vittima o addolorata.
I recenti casi di Sarah
Scazzi e di Yara Gambirasio,
adolescenti scomparse
e ritrovate assassinate, come
tutti i casi di aggressione
a sfondo sessuale di cui
le cronache purtroppo abbondano,
presentano figure
femminili inermi o incapaci
di difendersi dall’aggressività
altrui, fino al
punto di pagare con la
morte.
Nei servizi di cronaca
nera compaiono quasi
sempre le madri e le mogli
addolorate per la perdita
di figli o mariti. È quasi automatico,
tanto quanto intollerabile,
il “riflesso condizionato”
dei giornalisti
che di fronte a una tragedia
vanno a interpellare la
sventurata donna di turno,
per chiederle: «Cosa prova
in questo momento?».
Le vicende legate all’inchiesta
dei magistrati milanesi
sul giro di donne che
hanno abitualmente frequentato
la casa di Arcore
di Silvio Berlusconi hanno
riempito le pagine dei
giornali e i servizi dei telegiornali
di una pletora di
giovani disposte loro per
prime a offrirsi come merce
in cambio di benefici
economici e professionali.
Lasciando all’autorità giudiziaria
il compito di riscontrare
ed eventualmente
punire gli eventuali reati,
non si può non evidenziare
una tendenza dei media
a rappresentare queste
giovani come una massa
dotata di grande forza
d’urto e grande impatto
anche in termini sociali.
Se da un lato è squallido
vedere larghissimi spazi informativi
occupati da questa
rappresentazione, dall’altro
è drammaticamente
sconvolgente prendere
atto del fatto che molte
donne giovani, interpellate
sull’argomento, hanno
dichiarato che in fondo
potrebbe anche valere la
pena di vendere il proprio
corpo e la propria dignità
in cambio di qualche sicurezza
materiale e lavorativa.
Molto meno appetibili
per le testate informative
sono, evidentemente, tutte
le altre donne, quelle capaci
di studiare, lavorare e
affermarsi senza scorciatoie
ma a prezzo di fatica e
sacrificio.
Nonostante alcune
di loro abbiano raggiunto
posti di responsabilità
e di rilievo (si pensi a
Emma Marcegaglia, presidente
di Confindustria, a
Susanna Camusso, segretario
generale della Cgil, alle
donne ministro del Governo)
l’identità delle donne
“normali” resta completamente
in ombra rispetto
alla presenza esorbitante
di vallette o veline dell’intrattenimento
che, sconfinando
dall’ambito strettamente
spettacolare che le
ha lanciate, sono diventate
protagoniste del panorama
informativo non certo
in virtù delle loro buone
azioni o della loro specchiata
moralità. Nel mezzo
della polarizzazione fra
la donna della cronaca nera
e la soubrette pronta a
vendersi per fare carriera
si colloca il filtro delle anchorwoman,
ovvero delle
giornaliste che, con la loro
presenza in video, ci ricordano
che le donne possono
anche aver studiato e
aver fatto buone carriere.
I direttori delle testate
giornalistiche sono quasi
tutti uomini, ma esempi
come quello di Concita Di
Gregorio, direttrice dell’Unità,
o di Bianca Berlinguer,
direttrice del Tg3, sono
interessanti e lasciano
ben sperare.
Di evidenti segnali di inversione
di tendenza si
può parlare anche rispetto
a una parte delle produzioni
televisive più recenti
destinate al versante dell’intrattenimento.
Se, da
un lato, rimane ben radicato
lo stereotipo della valletta
bella e muta a fianco
del presentatore (quasi
sempre maschio) di turno,
dall’altro in alcuni casi
le donne sono riuscite ad
affermarsi come protagoniste
assolute di trasmissioni
di successo.
Nei talent show e nei
reality show più gettonati
dal pubblico lo scettro del
comando è saldamente in
mani femminili. Simona
Ventura è da anni la padrona
di casa all’Isola dei famosi,
come lo è la domenica
pomeriggio su Rai 2 a
Quelli che… il calcio. Lo stesso
ruolo ha Alessia Marcuzzi
al Grande Fratello, mentre
a completare il protagonismo
femminile domenicale
si aggiungono Federica
Panicucci a Domenica
Cinque e Lorella Cuccarini
a Domenica In.
Fra le signore del piccolo
schermo, che hanno
uguagliato e talvolta superato
gli uomini, fa ormai
storia il caso di Maria De
Filippi, comandante in capo
di Amici, Uomini e donne
e C’è posta per te. Anche Antonella
Clerici, pur nel
suo stile domestico e confidenziale,
è a modo suo
una donna dominatrice
(televisivamente parlando).
Si tratta di ruoli e di
trasmissioni capaci di conquistare
larghe fasce di
pubblico e di sancire, in
questo modo, il potere televisivo
di figure forti che,
però, non hanno definitivamente
soppiantato le vallette.
Queste ultime continuano
a essere largamente
presenti, chiamate a esibirsi
in vesti succinte e con
scarso (o nullo) diritto di
parola. “Veline”, “schedine”
e “meteorine” sono
soltanto alcuni esempi delle
molteplici declinazioni
specifiche di queste presenze,
poco utili ai fini dello
svolgimento delle trasmissioni
in cui compaiono
ma piacevoli all’occhio
(soprattutto maschile).
Ballerine, attrici e soubrette
hanno costumi di
scena molto audaci e le inquadrature
indulgono sui
loro corpi in maniera spudoratamente
voyeuristica.
Poco importa, dal punto
di vista mediatico, quanto
siano professionali o capaci
di svolgere il pur modesto
compito affidato loro.
Il requisito fondamentale
è la bella presenza, sempre
più frequentemente ritoccata
con interventi di
chirurgia estetica ad hoc.
La donna del varietà televisivo
italiano, dunque,
è identificata prevalentemente
con il suo corpo, abbondantemente
esposto e
lungamente seguito dallo
sguardo ravvicinato della
telecamera. L’estetica
complessiva di questo tipo
di presenza è quella caratteristica
dell’avanspettacolo,
e anche per questo il livello
complessivo dei programmi
di intrattenimento
risulta mediocre.
Se nei
reality della donna si sottolineano soprattutto la spregiudicatezza
e la furbizia,
nei programmi di intrattenimento
ne viene sfruttata
la tendenza all’esibizionismo,
non di rado indirizzata
verso lo stereotipo della
“bad girl”, la cattiva ragazza
capace di ottenere successo
o vantaggio economico
e personale grazie alla
spregiudicatezza nell’uso
del proprio corpo.
Il settore televisivo che
può restituire alla donna
qualche tratto del suo reale
ruolo sociale è, quasi paradossalmente,
quello della
fiction. Sceneggiatori e
registi delle produzioni di
maggiore successo sembrano
essere riusciti a intercettare
i tratti principali del
cambiamento sociale che
ha interessato l’universo
femminile negli ultimi lustri.
Si colgono evidenze di
questo sforzo sia nella scelta
come protagoniste delle
storie di donne professioniste
(medici o commissari
di polizia) o di donne
dalle qualità umane eccezionali,
sia nella tendenza
a evidenziare gli aspetti tipici
della sensibilità femminile
nel mondo lavorativo.
Sono frequenti le figure di
protagoniste capaci di corroborare
la specifica competenza
professionale con
il tipico intuito femminile
e con quella capacità di cogliere
le pieghe dello lo stato
d’animo altrui che permette
loro di essere ancora
più credibili nell’assunzione
di responsabilità.
Come abbiamo avuto
modo di constatare nei paragrafi
precedenti, nella
rappresentazione mediatica
dell’identità femminile
la connotazione della donna
oggetto, nelle sue varie
forme, è ancora piuttosto
dominante.
In base a come tutti i
mezzi di comunicazione
ne parlano, le donne italiane
sono diventate più smaliziate
e aggressive rispetto
alla possibilità di emergere
o di ottenere benefici,
grazie a un uso sapiente
della loro avvenenza e della
loro femminilità. E l’immagine
femminile veicolata
dai media risulta ancora
troppo fortemente condizionata
dagli stereotipi legati
all’identità, di facile
presa della donna oggetto.
Certamente sono necessarie
iniziative valide
per la promozione di una
corretta cultura della comunicazione
sulla donna,
attenta alla sua specificità,
consapevole della sua complessità,
rispettosa del suo
diritto alla non discriminazione.
In questa direzione,
può essere utile rafforzare
l’autoregolamentazione
che, pure, non manca all’interno
dei media, in particolare
nei comparti della
pubblicità, dell’informazione
e dello spettacolo televisivo,
cui si è fatto ampio
cenno in questa sede;
tale rafforzamento è da intendersi
soprattutto nella
direzione di una più efficace
azione di vigilanza e di
controllo rispetto alle norme
che già esistono, non
nella preoccupazione di
aggiungere ulteriori carte
a quelle in vigore.
È anche possibile un uso
dei media – e della televisione
in modo particolare
– che consenta di valorizzare
l’immagine della donna
e di rafforzarne una corretta
rappresentazione. E
non bisogna dimenticare
che tutti noi, in quanto
spettatori, ascoltatori, lettori
o internauti, siamo i primi
a dover pretendere dai
media verità e correttezza
nella connotazione dell’immagine
femminile nei
suoi vari ruoli, senza accontentarci
di stereotipi tanto
efficaci quanto strumentali
e degradanti.