Chiunque affronti il tema della convivenza non può non incontrare sul suo cammino quell'area geografico-culturale che indichiamo con il nome Mediterraneo. Era dunque fatale che il festival "Con-vivere" di Carrara lo scegliesse prima o poi come filo conduttore degli incontri e dei dibattiti. Così è accaduto proprio quest'anno: ed ecco che, dal 7 al 9 settembre, relatori di prestigio si confronteranno sul tema, affascinante e complesso, "Mediterraneo. Popoli e culture".
Che cos'è il Mediterraneo? Un luogo dove regna sovrana la contaminazione. Per effetto diretto della geografia, essendo l'unico luogo al mondo su cui si affacciano tre Continenti. E come conseguenza di una storia di scambi - ora pacifici, ora conflittuali - di natura economica, commerciale, culturale, demografica. Un paesaggio di 450 milioni di persone (oggi) che, nel corso della storia, hanno dato vita ai fenomeni più disparati. Uno stagno attorno al quale si sfiorano e scontrano i popoli come rane, secondo l'immagine platonica rievocata da Remo Bodei, fra le menti del festival.
E non si pensi che sia una vicenda che riguarda solo il passato, quella del Mediterraneo. Basti pensare alle cosiddette "Primavere arabe", quelle scosse sempre incompiute che hanno attraversato tanti Paesi del Nord Africa, con esiti spesso contradittori e ambivalenti (il nostro concetto di democrazia vale anche per loro? non si è, paradossalmente, aperta la strada agli estremisti islamici?). Se poi guardiamo al Mediterraneo volgendo lo sguardo dalla costa africana a quella europea, scopriamo che Italia, Spagna, Grecia sono quasi una periferia mal sopportata dell'Unione...
Ancora, il Mediterraneo è il bacino dell'immigrazione, tragicamente solcato dai sogni di tanti disperati (su questo aspetto fondamentale, si veda la pagina successiva del dossier). Dedicare un festival al Mediterraneo significa quindi collocarsi del cuore della storia, per cercare di capire il presente e immaginare il futuro.
A Carrara arriveranno esperti italiani e stranieri che lo scandaglieranno in tutti i suoi aspetti. Qualche nome: Farid Adly, scrittore e giornalista libanese residente in Italia; Leena Ben Mhenni, blogger e attivista della Primavera araba; Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste; Fabio Mini, esperto di strategie militari; l'ex ambasciatore ed esperto di esteri Sergio Romano...
Come in ogni festival che si rispetti, ai momenti di approfondimento si alterneranno occasioni di divertimento e conviviali, con mostre, concerti ecc.
Tutto il programma e le informazioni pratiche per raggiungere Carrara e per l'ospitalità sono disponibili sul sito: www.con-vivere.it.
Fra gli ospiti di "Con-vivere" figura Amara Lakhous, scrittore e giornalista algerino. Dopo la fuga dal suo Paese, si è stabilito a
Roma, dove vive e lavora. I suoi romanzi offrono una riflessione sul tema
dell’identità, non come uno spazio chiuso, ma un progetto aperto; un invito a
spostarsi dal centro (luogo di esclusione) alle periferie (spazi di incontro e
di inclusione). Si definisce uno scrittore arabofono e italofono. Per gentile concessione del festival, pubblichiamo parte della relazione che terrà a Carrara sabato 8 settembre alle 15.30 sul tema "Gli arabi in Italia.
Riconciliare gli italiani con la loro memoria".
Nell’estate del 2006 sono andato a Grotte in Sicilia per ritirare un premio letterario, fondato da Leonardo Sciascia nel 1980, e a presiedere la giuria era il grande scrittore Vincenzo Consolo, scomparso qualche mese fa. La sera prima della premiazione, il sindaco di Raccalmuto mi ha accompagnato a fare una passeggiata nel paese natale di Sciascia. Ad un certo punto, si è girato verso di me dicendo:
- “Sai che il nome di Sciascia è arabo?”.
- “Si, lo so e vuol dire copricapo”.
- “Anche Raccalmuto è di origine araba”.
- “Davvero?”.
- “Raccalmuto deriva dalle due parole arabe Rahal-Maut, villaggio morto”.
Sono rimasto piacevolmente sorpreso.
Prima dell’arrivo degli arabi, la Sicilia era un insieme di villaggi morti. V'è stata una vasta operazione di civilizzazione e di modernizzazione grazie all’introduzione delle tecniche dell’agricoltura e della pesca.
Oggi è giusto affermare che gli arabi non vengono in Italia, ma ci tornano. Non sono una minaccia ma una risorsa per rafforzare il dialogo tra le civiltà e riconciliare gli italiani con la loro memoria.
È necessario ricordare che gli italiani tendono a dimenticare il loro
passato di immigrati all’estero o di emigrati nelle città del Nord
Italia. Ad esempio, sono pochi gli intellettuali italiani coraggiosi che
ricordano le difficoltà di integrazione dei meridionali nel passato
recente.
Gli immigrati arabi in Italia sono per lo più musulmani e provengono dal
Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia ed Egitto). Appartengo alla
prima generazione di immigrati, un dato estremamente importante perché
vivono fra due mondi, fra due rive. Sono loro che portano il peso
dell’immigrazione, decidono per l’educazione dei figli, s’impegnano a
imparare la lingua e si sforzano di capire il nuovo contesto. Insomma
pagano i costi dell’integrazione.
Inoltre, rappresentano un blocco omogeneo sia sul piano linguistico sia
sul piano religioso (...).
In pochi anni,
l’Italia ha vissuto una trasformazione fondamentale da paese che
‘esporta’ immigrati a paese che "importa" la manodopera straniera. Gli
studiosi del fenomeno migratorio italiano considerano i tunisini i primi
immigrati a venire in Italia per motivi di lavoro, quindi ben prima
dell’arrivo delle donne filippine e capoverdiane,chiamate a svolgere
mansioni di lavoro domestico. Il primo flusso dei lavoratori tunisini
risale alla metà degli anni Sessanta. La destinazione era soprattutto
Mazara del Vallo in Sicila per soddisfare le richieste di manodopera nel
settore della marineria e della pesca.
Il rapporto che gli arabi hanno con l’Italia non è strettamente legato
al fenomeno dell’immigrazione recente, ma risale alla conquista araba
della Sicilia, durata più due secoli.
«La cultura araba – spiega lo scrittore Vincenzo Consolo – ha lasciato
nell'isola un'impronta tale che dal suo innestarsi nell'isola si può
dire che comincia la storia siciliana». «Indubbiamente gli abitanti
dell'isola cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista
araba», dice Sciascia.
«La cultura araba ha inciso nell'isola soprattutto in
quella parte occidentale che ha per vertici Mazara e Palermo», scrive ancora Consolo. «I segni
arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere
della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell'architettura, nella
lingua, nella letteratura» (Consolo, Di qua dal faro).
Lo scambio tra la Sicilia e il Nord Africa è continuato nel corso dei
secoli grazie soprattutto agli immigrati italiani. Sarebbe utile
ricordare che l’emigrazione siciliana nel Nord Africa, in particolare in
Tunisia, era iniziata a partire dal 1835. Infatti si è verificato un
sostanziale spostamento di alcuni gruppi di tonnaroti e di corallari,
soprattutto trapanesi, in diverse località costiere tunisine e algerine.
La presenza italiana in Tunisia a partire dagli Settanta dell’Ottocento
era stimata fino a 25 mila. Nel censimento del 1926, su una popolazione
europea residente in Tunisia di 173.281 abitanti, figuravano 89.216
italiani, 71.020 francesi, 8.396 maltesi.
Anche il flusso degli italiani in Egitto inizia a metà dell’Ottocento.
La destinazione preferita era Alessandria, la città la più cosmopolita
del Mediterraneo. Prima della seconda guerra mondiale, la presenza
italiana raggiungeva le 70.000 unità.
Bisogna ricordare che Nel medioevo erano i genovesi, i veneziani, i
napoletani, i calabresi, i siciliani, i sardi, i francesi, i tedeschi a
“farsi turchi”, (abbracciando la religione musulmana) per cercare un
futuro migliore nel Maghreb. Nei tempi più recenti, è toccato ai
tunisini, ai marocchini, agli algerini, agli egiziani “farsi italiani o
francesi o spagnoli” per la medesima ragione. (...)
Infine, gli immigrati che vivono in Italia, soprattutto quelli
provenienti da paesi arabi, hanno una grande opportunità di confrontarsi
con nuovi modelli culturali. I due primi valori da adottare, senza
cedere al relativismo culturale, sono quelli della libertà individuale e
della sacralità della vita. Sarebbe un grave errore cercare di
difendere a oltranza le proprie radici culturali. L'identità deve essere
aperta. Mio padre mi diceva: “Gli alberi hanno le radici per stare
immobili, gli uomini hanno le gambe per muoversi, cambiare e migliorare
la loro vita”.
Amara Lakhous