Un anno senza Pietro Mennea.
Significa il ricordo struggente
di un campione intramontabile
che ha scritto pagine
gloriose dell’atletica e dello
sport italiano e mondiale, attraverso
le sue imprese epiche
e i suoi indimenticabili
trionfi. È il ritornare indietro nella memoria
del tempo, quando nella sua Barletta
cominciò a intravedere l’alba di
una carriera che poi sarebbe diventata
esaltante e ricca di successi. Sudore, fatica,
spirito di sacrificio, forza di volontà:
un continuo gettare il cuore oltre
l’ostacolo per raggiungere e conquistare
traguardi impensabili.
Quel ragazzo longilineo dal fisico
esile, ma dall’animo pugnace, scattante
come un ghepardo e veloce come una
saetta, fece breccia nei pensieri e
nell’intuito del professore Francesco
Mascolo che fu il primo allenatoremaestro
di Mennea. «Tutto avvenne
nella primavera del 1966», ricorda Mascolo,
75 anni. «Io ero insegnante di
educazione fisica e tecnico specializzato
di atletica. Allenavo i ragazzi
dell’Avis Barletta. Un bel giorno vidi
Pietro che correva per le strade della città
vecchia.
Oltre a giocare a calcio, era
un marciatore. Rimasi colpito, durante
alcuni esercizi di corsa, dal suo scatto:
andava come un treno e lasciava tutti
dietro. Dissi tra me e me: questo è un
velocista puro. Avevo bisogno di un elemento
per completare la staffetta
4x100.
Così gli proposi di cambiare specialità.
Lui accettò senza batter ciglio.
Da lì cominciò la splendida avventura
di Pierino che poi sarebbe diventato il
mito che tutti abbiamo applaudito».
Un piccolo campione
Allenamenti durissimi,
intensi. Eppure l’intrepido giovane
Mennea affrontava anche le sedute
più impegnative con grande determinazione,
senza mai lesinare energie.
«Aveva temperamento e grinta da vendere
oltre a un’innata passione per lo
sport», sottolinea Mascolo. «Le doti
straordinarie e il suo talento erano lì
sul punto di esplodere. Noi dell’Avis, allora
presieduta da Ruggero Lattanzio,
lo aiutammo a crescere sia sotto il profilo
tecnico sia fisico. Un lavoro prezioso
di tutto lo staff che fu fondamentale
per la sua maturazione. Io lo seguivo e
lo guidavo durante gli allenamenti. Per
lui ero un secondo padre. Lo portai anche
da un dentista per curare alcune carie
in modo da non avere problemi
nell’alimentazione. Giorno dopo giorno
mi accorgevo che stavo forgiando
un piccolo campione».
Mai un attimo di sosta, correndo a perdifiato verso quell’orizzonte
che sembrava schiudersi come un fiore
in primavera. La cosa più incredibile è
che l’astro nascente stava sbocciando in
una città, Barletta, dove non c’era una
pista di atletica.
«Il vecchio e glorioso stadio Lello Simeone
era la nostra casa», racconta Mascolo.
«Sul campo in terra battuta disegnavamo
le corsie mentre utilizzavamo
le curve del velodromo all’interno
dell’impianto (sono visibili ancora oggi,
ndr) per preparare la staffetta.
Pietro,
che allora aveva 15-16 anni, si allenava
con scrupolo e meticolosità due-tre ore
al giorno sia al mattino sia al pomeriggio,
perfino durante le feste, a Natale e
Pasqua. Aveva un chiodo fisso: gareggiare
e vincere.
Per potenziare la muscolatura
lo portavo sulla sabbia delle
nostre spiagge. Ma, soprattutto, ci metteva
l’anima quando s’inerpicava con la
sua proverbiale accelerazione lungo la
tortuosa salita di piazza Marina, nel
cuore della città vecchia. I suoi miglioramenti
erano costanti anche perché spesso
a scuola durante le lezioni si allenava
con il professor Alberto Autorino,
che insegnava educazione fisica all’Istituto
tecnico Cassandro dove Pietro si
era iscritto per diventare ragioniere».
La molla dell'emulazione
Le prime gare
ai Campionati studenteschi, le prime
vittorie su 80 e 300 metri. «I tempi erano
già straordinari. Il primo posto ai
Campionati italiani allievi di Ascoli fu
incredibile. In quell’occasione Pietro conobbe
Vittori.
Ma l’emozione più forte
la provai quando, ai Campionati regionali
allievi nel settembre del ’68 a Molfetta,
vinse sia nei 300 sia nella staffetta
battendo il superfavorito De Giorgi.
Quel giorno dissi: è nata una stella».
Qualche settimana più tardi, Pietro Mennea
sembrò scrutare nel suo futuro: la
vittoria di Tommy Smith nei 200 alle
Olimpiadi di Città del Messico fece scattare
in lui la molla dell’emulazione.
Il professor Mascolo seguì da vicino
Mennea fino al ’72. «Dopo tante mie insistenze
Carlo Vittori verso la fine del
1971 decise di portarlo al Centro sportivo
federale di Formia. Alle Olimpiadi di
Monaco condivisi con lui la gioia per la
medaglia di bronzo nei 200. La mia felicità
fu immensa per il record del mondo
a Città del Messico, ma anche per
l’oro di Mosca nel 1980».
Un esempio di solidarietà
Pietro Mennea
aveva anche una fede incrollabile.
Francesco Mascolo conosceva bene la
sua spiritualità: «Era cattolico praticante.
Prima di ogni gara si faceva il segno
della croce e pregava la Madonna dello
Sterpeto, il santo patrono di Barletta.
Era molto devoto della Madonna
dell’Arco di Pomigliano e dopo le Olimpiadi
di Monaco andò a far visita al santuario
su invito di monsignor Reginaldo
Addazi, suo appassionato tifoso, che
era stato arcivescovo di Barletta. Pietro
è stato sempre un esempio di solidarietà.
Ha aiutato molta gente. Quando tornava
in città, tra una gara e l’altra, andava
a far visita in forma privata ai malati
terminali che chiedevano di poterlo
incontrare per una parola di conforto,
per un sorriso. Aveva davvero un
cuore grande».
Che cosa le manca di Pietro ora che
non c’è più? Gli occhi del professor Mascolo
si fanno lucidi: «La sua schiettezza
e la sua umanità. Era un atleta vero,
autentico, caparbio, indomabile, combattivo.
Ha lasciato un vuoto incolmabile.
Vorrei tanto che in suo onore venisse
realizzato a Barletta un centro sportivo
federale per l’atletica, affinché i nostri
giovani seguendo il suo esempio
possano fare questo sport in maniera
competitiva. Credo che da lassù anche
lui ne sarebbe contento».