Torna a sperare di non essere più uccisa Meriam Yahia Ibrahim. Antonella Napoli, presidente di Italians For Darfur, ha fatto sapere che la giovane cristiana «avrà un nuovo processo» citando rassicurazioni di avvocati raccolte da Khalid Omer Yousif della Ong Sudan Change Now. Gli avvocati, ha aggiunto Napoli, «hanno avuto rassicurazioni importanti: la nuova sentenza», che sarà pronunciata dalla Corte suprema, «non prevederà la pena di morte». Il pronunciamento, ha aggiunto è atteso «a breve, fra poche settimane».
Di fronte all’orrore della sentenza non c’è nazionalità, religione, confine che tenga. Il mondo intero si sta mobilitando per la condanna a morte di Meriam Yahia Ibrahim Ishag, 27 anni, incinta di otto mesi e già in carcere con un altro figlio di quasi due anni, condannata all'impiccagione per apostasia e a centro frustrate per “adulterio”. La sua colpa? Essere cristiana – la religione alla quale è stata educata dalla madre, cristiana ortodossa originaria dell’Etiopia, dopo che il padre, musulmano, se n’è andato di casa quando lei era piccola – e aver sposato un cristiano. È stata arrestata lo scorso febbraio ma la sentenza di morte è stata emessa i primi di maggio.
Le organizzazioni internazionali si stanno mobilitando, CNN e BBC hanno diffuso in Rete la foto delle nozze di Meriam con il marito Daniel Wani, con il quale viveva in una fattoria a sud di Khartum. Foto che le è valsa, probabilmente, la pena capitale. Sul caso è intervenuto anche il premier italiano Renzi promettendo, via Twitter, che «L'Italia farà sentire la sua voce anche nelle sedi diplomatiche».
Amnesty International ha definito «ripugnante» la sentenza e ha chiesto l'immediato rilascio della giovane. «Siamo in presenza di una flagrante violazione del diritto internazionale dei diritti umani», ha spiegato l'organizzazione che ha lanciato un appello urgente sul suo sito. Nei giorni scorsi numerose ambasciate occidentali e varie Ong erano scese in campo a sostegno della donna.
Meriam Yahia Ibrahim è stata cresciuta come cristiana ortodossa, religione della madre, in quanto il padre, musulmano, è stato assente fin dalla sua tenera età. La donna si è poi sposata con uno cristiano del Sud Sudan, ma il suo matrimonio non è considerato valido perché contrario alla Sharia. Inoltre, secondo la legge islamica, se il padre è musulmano, la figlia è automaticamente della sua stessa fede religiosa.
«La comunità internazionale non può permettere che si compia una simile barbarie», ha affermato la vicepresidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, che ha manifestato giovedì sera a Roma davanti all’ambasciata sudanese . «Per le autorità sudanesi», ha detto, «l'unica colpa di questa mamma è la sua fede religiosa e per questo merita la morte. Le nostre coscienze non possono tollerarlo. Il diritto alla libertà religiosa è inviolabile, anche se vi sono Paesi in cui non esiste tale garanzia come dimostrano le persecuzioni di cui sono ancora oggi vittime i cristiani nel mondo. Rivolgiamo un appello anche alle Istituzioni europee affinché vi sia un intervento per salvare la vita a Meriam».
Anche il quotidiano Avvenire ha lanciato una campagna via Twitter con l'hashtag #meriamdevevivere ripreso da migliaia di persone. Italians for Darfur ha lanciato sul proprio sito un appello che ha già raccolto centinaia di firme. «Con un click», questo lo slogan, «puoi contribuire a salvare la vita di un'innocente».
L’avvocato di Meriam, Al-Shareef Ali al-Shareef Mohammed, ha definito il verdetto affrettato e debole dal punto di vista giuridico perché il giudice ha rifiutato di ascoltare i principali testimoni della difesa e ha ignorato i principi di libertà di religione e uguaglianza tra i cittadini previsti dalla Costituzione del Paese.
Il padre, ha riferito l’avvocato, ha lasciato la famiglia quando Ibrahim era piccola e la madre l’ha cresciuta nella fede cristiana. «Il giudice ha oltrepassato il proprio mandato quando ha deciso che il matrimonio di Meriam non è valido perché suo marito non appartiene alla sua religione», ha dichiarato al-Shareef Mohammed, aggiungendo che «il giudice pensava più alla legge islamica sharia che non alle leggi e alla Costituzione del Paese».