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mercoledì 14 maggio 2025
 
Perseguitati
 

Meriam, salva grazie all’Italia. E a un’altra donna

11/05/2015  Nella campagna per la liberazione della giovane cristiana il nostro Paese è stato in prima linea. A partire dell'impegno della giornalista Antonella Napoli.

«Il mio nome è Meriam». La voce risuona chiara di fronte al giudice del tribunale di Khartum che le elenca le accuse, chiamandola, sprezzante, con il suo nome islamico. Secondo la denuncia di parenti che lei neppure ha mai visto in vita sua, Meriam Yehya Ibrahim Ishag, figlia di padre musulmano, avrebbe rinnegato la sua fede e sarebbe diventata cristiana per sposare un uomo cattolico. Apostasia, il primo reato, e adulterio, il secondo, in base alla sharia, la legge islamica, in un Paese nel quale la Carta costituzionale è laica e sancisce la libertà di culto, ma la sharia impone i suoi dettami nel sistema giudiziario, così come nella società civile. Per la giovane, madre di un bambino di un anno e mezzo, Martin, e incinta di una bambina, la condanna è implacabile: cento frustate e morte per impiccagione.

Meriam, 27 anni, figlia di una donna etiope che l’ha cresciuta nella fede cristiana, non ha conosciuto il padre, scappato quando lei era bambina. Si è sposata con Daniel, sudsudanese, rifugiato politico negli Stati Uniti, rientrato in seguito nel Paese di origine. A Meriam viene offerta la possibilità di salvarsi dichiarandosi musulmana. Lei preferisce accettare la sentenza di morte piuttosto che rinnegare la sua fede. L’unica che abbia conosciuto nella sua vita, fin da piccola, quella cristiana. Incinta, viene tenuta in catene. In catene, a gambe strette, è costretta a dare alla luce sua figlia, Maya.

La sua storia ha un lieto fine. La Corte d’appello la riconosce innocente. Meriam oggi è libera. Grazie alla determinazione sua e dei suoi avvocati. E grazie anche all’impegno incrollabile di un’altra donna forte, italiana, madre anche lei, giornalista diventata anche attivista per i diritti umani, che non ha mai smesso di lottare per far conoscere la vergogna di questo caso giudiziario all’Italia e al mondo.

Antonella Napoli, che scrive da anni del Sudan e in particolare della martoriata regione del Darfur, ha pianto con Meriam, da lontano. Ha abbracciato la giovane sudanese nell’ambasciata americana a Khartum. L’ha poi ritrovata a Roma, quando la donna è arrivata grazie alla diplomazia italiana. E oggi nel libro Il mio nome è Meriam (edito da Piemme) racconta il calvario di quei mesi del 2014, da quando Meriam è stata condannata a morte, fino alla sua liberazione e al suo arrivo in Italia, a luglio. L’autrice ripercorre il caso giudiziario, seguito passo passo grazie al contatto costante con l’avvocato di Meriam, Mohaned Mustafa al-Nour, e con gli attivisti in Sudan. Ricorda l’impegno risoluto, in prima linea, del Governo e della diplomazia italiani che nella lotta per la liberazione della giovane mamma sudanese hanno giocato un ruolo da protagonisti. E sottolinea la straordinaria mobilitazione della società civile in Italia e negli altri Paesi, promossa in primis dall’associazione da lei fondata nel 2006, Italians for Darfur, e da Amnesty International, che insieme hanno lanciato una petizione internazionale per la liberazione di Meriam. «La campagna è stata molto seguita in Italia, ha coinvolto i cittadini in modo trasversale, cattolici, studenti, gente di ogni fede. Tante firme le abbiamo raccolte anche tra i rifugiati del Darfur, musulmani», osserva Antonella.

«Dopo Meriam in Sudan c’è stato il caso di un’altra donna cristiana, madre di sette figli, condannata per apostasia. Ma lei ha accettato di abiurare e il caso è stato chiuso. È vero che negli ultimi 25 anni non ci sono state condanne a morte per apostasia. Ma questo perché molti, per salvarsi, abiurano».

In Sudan, spiega l’autrice, vige un’interpretazione intransigente della sharia. Da quando il Sudan del Sud, a maggioranza cristiana, è diventato Stato indipendente, nel 2011, le persecuzioni contro i cristiani nel Nord si sono inasprite. La situazione di intolleranza religiosa sta diventando sempre più dura. Il Sudan è al sesto posto della World watch list, l’elenco dei cinquanta Paesi del mondo che perseguitano di più i cristiani. 

IL CALVARIO DEI PASTORI EVANGELICI

«I cristiani vengono spinti ad andarsene verso il Sud. Quelli stranieri sono stati espulsi. Molti vengono minacciati di morte, messi in prigione. Tante chiese vengono demolite. E chi oppone resistenza patisce l’arresto». Come è accaduto, di recente, a due pastori evangelici. Un caso che la giornalista sta seguendo in collaborazione con il loro avvocato (lo stesso che ha difeso Meriam) e che lei stessa racconta: «Padre Peter Yein Reith, pastore sudsudanese di una chiesa presbiteriana a Khartum, una moglie e un figlio di un anno, è stato arrestato dopo un incontro di preghiera. L’altro, padre Michael, arrivato a Khartum con i suoi figli per un controllo medico, era stato invitato a tenere un sermone in una chiesa presbiteriana che lo scorso dicembre aveva subìto parziale demolizione: è stato arrestato per “disturbo pubblico”. Ora entrambi sono in carcere. Il 28 aprile hanno iniziato uno sciopero della fame. Rischiano l’accusa su capi di imputazione molto gravi, per i quali in Sudan è prevista la pena di morte».

La politica italiana si sta muovendo anche questa volta: «Il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha depositato un’interrogazione al ministro degli Affari esteri Paolo Gentiloni». Meriam oggi vive negli Stati Uniti con la famiglia (suo marito è cittadino americano). In Sudan non poteva restare: l’opinione pubblica era contro di lei. La sua storia è diventata un simbolo. Ma il lieto fine non deve far abbassare la guardia: tante vicende giudiziarie come la sua continuano ad accadere in Sudan. Nel frattempo, il presidente sudanese Omar al-Bashir, al potere da 25 anni, incriminato per genocidio dalla Corte penale internazionale dell’Aja, è stato rieletto.

Antonella Napoli, da cronista, continua a seguire le vicende del Paese africano. E porta avanti il suo impegno per il Darfur. «Italians for Darfur coopera con un’organizzazione umanitaria sul posto fondata dal primo sudanese al quale l’associazione da me presieduta ha permesso di ottenere lo status di rifugiato politico in Italia, Suliman Ahmed Hamed. Quest’uomo ha poi avuto il coraggio di rientrare nel suo Paese. Ora si impegna per la difesa dei diritti umani e lo sviluppo del suo popolo, in una regione, il Darfur, dove continua la crisi umanitaria, nel silenzio del mondo».

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