Prima entra lei, Meryl Streep, deliziosa nel suo abito a fiori e ancor di più quando saluta con la sua incantevole voce soffusa. Poi arriva lui, Tom Hanks, con il suo sorriso guascone. Nota che nella stanza dell’hotel dove ci troviamo i maschi sono in netta minoranza e allora ci dà una pacca sulle spalle: «Mi raccomando, facciamo i gentiluomini».
Fa un certo effetto trovarsi seduti accanto a due attori che hanno vinto cinque Premi Oscar (tre lei, due lui). Ma loro ci mettono un istante a creare un’atmosfera amichevole: lui ti conquista con le sue battute; lei con la sua umiltà. Ti guarda sempre negli occhi e si capisce che è davvero interessata a ciò che stai dicendo. I Premi Oscar comunque diventano otto se si aggiungono i tre di Steven Spielberg, che è riuscito per la prima volta a farli recitare insieme in The Post, ricostruzione della vicenda dei Pentagon Papers, i documenti riservati sulla guerra in Vietnam pubblicati nel 1971, prima dal New York Times e poi dal Washington Post, contenenti i segreti e le menzogne sul coflitto in Vietnam da parte di cinque amministrazioni Usa.
Come ha dichiarato lo stesso regista: «Oggi la libertà di stampa è ancora sotto attacco dalla nuova amministrazione che definisce “fake news” le notizie che non piacciono al presidente Trump». Quindi The Post ha un evidente messaggio politico. Ma ha un secondo piano di lettura, forse ancora più potente: è infatti il vibrante ritratto di una donna straordinaria, Katherine Graham (Meryl Streep), la prima editrice di un quotidiano americano, il Washington Post, appunto.
Un ruolo che si era trovata a ricoprire suo malgrado, perché il padre aveva designato il marito a prendere il suo posto. Ma dopo la sua tragica morte lei, senza avere nessuna esperienza, prese le redini del giornale, per di più in un periodo in cui non navigava in buone acque. «Il punto cruciale del film, il suo momento emotivamente più forte, non riguarda l’inchiesta sui Pentagon Papers, ma il momento in cui Katherine deve dire sì o no alla loro pubblicazione», conferma Hanks, che nel film interpreta il direttore del Post Ben Bradlee.
Tutti gli uomini attorno a lei le sconsigliano di farlo, dicendole che i finanziatori si sarebbero ritirati e che il presidente Nixon avrebbe usato tutto il suo potere per distruggerla. Tutti, tranne uno: Bradlee, strenuamente convinto del ruolo della stampa come cane da guardia del potere. Lei tentenna, ma alla fine, pur con un filo di voce, dà l’ok e allora, in una scena magnifica, le rotative si mettono in funzione. Il film dunque affronta anche un tema pochissimo frequentato dal cinema: l’amicizia tra un uomo e una donna.
Hanks: «Non si vedono baci, carezze, proposte di matrimonio. Tra loro parlano sempre e solo di lavoro. Eppure Sally, la terza moglie di Bradlee, mi ha detto che lui amava Kay (il nomignolo della Graham, ndr), un amore costruito su un profondo sentimento di empatia e di rispetto reciproco. Questo tipo di amore è fantastico e se ti capita nella vita sei davvero fortunato».
La Streep aggiunge: «In apparenza Kay era una donna di successo, appagata. In realtà ha sempre provato un senso di insicurezza, la paura di non essere in grado di soddisfare le aspettative altrui. È stata una donna di potere, eppure anche prima di morire, a 86 anni, diceva di non sentirsi mai del tutto sicura di sé stessa. Ed è una sensazione che credo tutte le donne, me compresa, conoscono molto bene».
Le chiediamo se c’è oggi una figura femminile che si possa accostare a Katherine Graham e lei risponde sicura: «Angela Merkel. Per il solo fatto che ricopre quel ruolo». Poi, con un chiaro riferimento alle imminenti elezioni da noi, affonda il coltello nella piaga: «In Italia, c’è qualche donna che potrebbe diventare come lei?». No, purtroppo al momento no, le rispondiamo.
Per fortuna ci soccorre Tom dall’imbarazzo, allargando lo sguardo al recente scandalo Weinstein con le denunce di molestie sessuali da parte di molte attrici di Hollywood: «Sono un uomo e in quanto tale potrei dire delle idiozie in proposito, ma credo che grazie all’enorme movimento d’opinione che si è creato, è come se avessimo attraversato il Rubicone (il fiume percorso da Giulio Cesare prima di marciare su Roma: l’attore è un grande appassionato di storia, ndr): non si potrà più tornare indietro».
Meryl annuisce, ma precisa: «C’è un altro Rubicone che dobbiamo ancora attraversare. Quando in aereo sentiremo la voce di una donna dire: “Buongiorno, sono Stephanie, il comandante” e non avvertiremo più un brivido lungo la schiena, che provano sia gli uomini che le donne, intendiamoci, allora le cose saranno davvero cambiate».
Tornando al film, chiediamo ai due attori se pensano che la tradizione del giornalismo d’inchiesta sia ancora viva. Streep: «Mi vengono in mente due nomi, guarda caso di donne: Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese che è rimasta uccisa in un attentato per i suoi articoli contro la corruzione; e la messicana Patricia Mayorga, che combatte anche lei per denunciare i legami tra politici e narcotrafficanti».
«Sono andata a vedere The Post in un cinema qualsiasi», continua l’attrice. «Quando arriva la scena della sentenza della Corte suprema in cui si dice che l’informazione è fatta per i governati e non per i governanti ho visto molte persone tra il pubblico piangere. Mi ha molto colpito perché al cinema di solito si piange per le scene tristi, non l’ho mai visto fare per un ideale: è evidente che la gente è molto arrabbiata e si sente in pericolo». Hanks: «D’altra parte è incredibile vedere quanti giornalisti ogni giorno in Tv si impegnano per rendere nebulosa la verità».
Ma sono più dannose le fake news o i giornalisti che non si impegnano abbastanza per cercare e raccontare la verità? «La combinazione delle due cose», risponde Meryl Streep. «Se sempre più gente ritiene che i giornali non sono credibili, questo è un fatto molto pericoloso per la democrazia». Hanks: «Per questo c’è bisogno dei giovani: spero che in tanti vadano a vedere The Post e all’uscita del cinema pensino: “Io voglio fare il giornalista”».