dal nostro inviato ad Abu Dhabi
Due giorni e otto secoli. Tanti ce ne sono voluti perché, dopo l’abbraccio tra San Francesco e il sultano Malek Al Kamel, cristiani e musulmani si ritrovassero di nuovo assieme. Nello stadio Zayed Sprot city, 4.000 persone di fede islamica partecipano alla messa di papa Francesco, "Per la pace e la giustizia", assieme a oltre 120.000 cattolici (fedeli caldei, copti, greco-cattolici, greco-melchiti, latini, maroniti, siro-cattolici, siro-malabaresi, siro-malancaresi, le cui comunità il Papa cita e ringrazia una per una). Un evento senza precedenti in un Paese, gli Emirati Arabi uniti, dove il culto è stato possibile, finora, solo all’interno degli edifici e mai pubblicamente. Un’apertura dopo la dichiarazione congiunta firmata ieri dal Pontefice e dal grande Imam di Al –Azhar, Ahmad Al-Tayyeb e dopo le parole di quest’ultimo: «Nei nostri Paesi i cristiani non sono una minoranza, ma cittadini a pieno titolo».
Cento le nazionalità presenti in uno stadio che si infiamma di bianco giallo all'ingresso del Papa nell'arena e che urla di gioia in tutta e in tutta la cintura attorno che ospita la folla che non ha potuto trovare spazio tra gli spalti.
Prima di arrivare allo stadio papa Francesco ha fatto visita alla cattedrale dove il vicario apostolico monsignor Paul Hinder ha presentato una piccola comunità di 300 fedeli ai quali Bergoglio ha espresso il suo ringraziamento «per la vostra testimonianza».
E della testimonianza ha parlato nel corso della sua omelia. Una testimonianza che ha paragonato alla prima comunità di Filadelfia, alla quale, nel libro dell’Apocalisse «Dio, a differenza di quasi tutte le altre, non rimprovera nulla. Essa, infatti», dice Francesco, «ha custodito la parola di Gesù, senza rinnegare il suo nome, e ha perseverato, cioè è andata avanti, pur nelle difficoltà. E c’è un aspetto importante: il nome Filadelfia significa amore tra i fratelli. L’amore fraterno. Ecco, una Chiesa che persevera nella parola di Gesù e nell’amore fraterno è gradita al Signore e porta frutto».
Il Papa commenta la parola «beati con cui Gesù comincia la sua predicazione nel Vangelo di Matteo». E poi si sofferma su due beatitudini in particolare: «Beati i miti» e «Beati gli operatori di pace».
Essere beati è «la prima realtà della vita cristiana». Non è un futuro, ma un presente, «non sarai beato, sei beato», sottolinea il Papa. Una condizione che «non si presenta come un elenco di prescrizioni esteriori da adempiere o come un complesso insieme di dottrine da conoscere», ma che «è sapersi, in Gesù, figli amati del Padre. È vivere la gioia di questa beatitudine, è intendere la vita come una storia di amore, la storia dell’amore fedele di Dio che non ci abbandona mai e vuole fare comunione con noi sempre».
Lo stadio si emoziona quando il Papa dice, tradotto in arabo dallo speaker, «Ecco il motivo della nostra gioia, di una gioia che nessuna persona al mondo e nessuna circostanza della vita possono toglierci. È una gioia che dà pace anche nel dolore, che già ora fa pregustare quella felicità che ci attende per sempre. Cari fratelli e sorelle, nella gioia di incontrarvi, questa è la parola che sono venuto a dirvi: beati!».
E colpiscono i motivi delle beatitudini: «In esse vediamo un capovolgimento del pensare comune, secondo cui sono beati i ricchi, i potenti, quanti hanno successo e sono acclamati dalle folle. Per Gesù, invece, beati sono i poveri, i miti, quanti restano giusti anche a costo di fare brutta figura, i perseguitati. Chi ha ragione, Gesù o il mondo? Per capire,guardiamo a come ha vissuto Gesù: povero di cose e ricco di amore, ha risanato tante vite, ma non ha risparmiato la sua. È venuto per servire e non per essere servito; ci ha insegnato che non è grande chi ha, ma chi dà. Giusto e mite, non ha opposto resistenza e si è lasciato condannare ingiustamente. In questo modo Gesù ha portato nel mondo l’amore di Dio. Solo così ha sconfitto la morte, il peccato, la paura e la mondanità stessa: con la sola forza dell’amore divino».
Ed è tutta qui, «nella comunione con Lui e nell’amore per gli altri, il senso della vita sulla terra. Credete a questo?», chiede il Pontefice. E ancora dice grazie ai presenti, «grazie per come vivete il Vangelo che abbiamo ascoltato. Si dice che tra il Vangelo scritto e quello vissuto ci sia la stessa differenza che esiste tra la musica scritta e quella suonata. Voi qui conoscete la melodia del Vangelo e vivete l’entusiasmo del suo ritmo. Siete un coro che comprende una varietà di nazioni, lingue e riti; una diversità che lo Spirito Santo ama e vuole sempre più armonizzare, per farne una sinfonia. Questa gioiosa polifonia della fede è una testimonianza che date a tutti e che edifica la Chiesa».
Non è una testimonianza semplice, perché «vivere da beati e seguire la via di Gesù non significa stare sempre allegri. Chi è afflitto, chi patisce ingiustizie, chi si prodiga per essere operatore di pace sa che cosa significa soffrire. Per voi non è certo facile vivere lontani da casa e sentire magari, oltre alla mancanza degli affetti più cari, l’incertezza del futuro. Ma il Signore è fedele e non abbandona i suoi».
Racconta della vita di sant’Antonio abate, «il grande iniziatore del monachesimo nel deserto», immerso «per vario tempo in un’aspra lotta spirituale che non gli dava tregua, assalito da dubbi e oscurità, e pure dalla tentazione di cedere alla nostalgia e ai rimpianti per la vita passata. Poi il Signore lo consolò dopo tanto tormento e sant’Antonio gli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso prima per liberarmi dalle sofferenze?”. Allora percepì distintamente la risposta di Gesù: “Io ero qui, Antonio”». Anche quando non lo percepiamo Dio è vicino a noi e, «anche se non interviene subito, ci cammina a fianco e, se continuiamo ad andare avanti, aprirà una via nuova. Perché il Signore è specialista nel fare cose nuove, sa aprire vie anche nel deserto».
Le beatitudini non richiedono gesti eclatanti, «Gesù non ha lasciato nulla di scritto, non ha costruito nulla di imponente. E quando ci ha detto come vivere non ha chiesto di innalzare grandi opere o di segnalarci compiendo gesta straordinarie. Ci ha chiesto di realizzare una sola opera d’arte, possibile a tutti: quella della nostra vita».
Le Beatitudini allora diventano una mappa di vita: «Invitano a tenere pulito il cuore, a praticare la mitezza e la giustizia nonostante tutto, a essere misericordiosi con tutti, a vivere l’afflizione uniti a Dio. È la santità del vivere quotidiano, che non ha bisogno di miracoli e di segni straordinari». E chi le vive «secondo Gesù rende pulito il mondo. È come un albero che, anche in terra arida, ogni giorno assorbe aria inquinata e restituisce ossigeno. Vi auguro di essere così, ben radicati in Gesù e pronti a fare del bene a chiunque vi sta vicino».
E fra le beatitudini ricorda che essere miti significa seguire le istruzioni che San Francesco diede ai suoi «su come recarsi presso i Saraceni e i non cristiani. Scrisse: “Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani” (Regola non bollata, XVI). Né liti né dispute: in quel tempo, mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature, san Francesco ricordò che il cristiano parte armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto. È importante la mitezza: se vivremo nel mondo al modo di Dio, diventeremo canali della sua presenza; altrimenti, non porteremo frutto».
E infine la seconda Beatitudine: «”Beati gli operatori di pace. Il cristiano promuove la pace, a cominciare dalla comunità in cui vive». E, dopo averli paragonati a Filadelfia il Papa chiede per questa comunità «la grazia di custodire la pace, l’unità, di prendervi cura gli uni degli altri, con quella bella fraternità per cui non ci sono cristiani di prima e di seconda classe. Gesù, che vi chiama beati, vi dia la grazia di andare sempre avanti senza scoraggiarvi, crescendo nell’amore “fra voi e verso tutti”».