È volato fino a Temuco, 618 chilometri da Santiago, per celebrare la messa “per il progresso dei popoli”. Nel cuore della regione dell’Auracania, nel territorio dove in orgine abitavano gli indios mapuche, papa Francesco torna a parlare di rispetto dell’ambiente e delle culture. In una celebrazione molto suggestiva e colorata, animata da molti elementi tradizionali, alla presenza di 150 mila fedeli, papa Francesco ascolta l’atto penitenziale cantato in lingua mapudungun. Nella stessa lingua degli indios comincia la sua omelia «Mari, Mari», dice, cioè «buongiorno». E, subito dopo, accolte da un grande applauso, le parole: «Küme tünngün ta niemün» (la pace sia con voi).
Papa Francesco parla della bellezza dell’Araucanía, «terra benedetta dal Creatore con la fertilità dei immensi campi verdi, foreste colme di imponenti araucarie», la pianta simile al mirto che dà il nome alla regione, «i suoi maestosi vulcani innevati, i suoi laghi e fiumi pieni di vita. Questo paesaggio ci eleva a Dio ed è facile vedere la sua mano in ogni creatura». Il Papa saluta, in particolare «i membri del popolo Mapuche, così come gli altri popoli indigeni che vivono in queste terre australi: Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama, e molti altri».
Va subito al cuore della questione, bergoglio, ricordando che questa terra così bella ha anche un dolore che si esprime con queste parole: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere». E anche l’aerodromo di Maquehue, nel quale si celebra la messa ha visto il verificarsi «di gravi violazioni di diritti umani. Offriamo questa celebrazione per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare».
Parla di lacrime versate, di dolore, di scontri e divisioni. Ma anche della preghiera con la quale chiedere il dono della unità. Stando attenti però a «confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri».
Usa ancora una parola locale, chamal, manto, per dire che l’unità richiede abili tessitori che «conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori». Il manto fatto dagli artigiani potrà essere imitato a livello industriale, «ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente. L’arte dell’unità esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze nei “laboratori” dei villaggi, delle strade, delle piazze e dei paesaggi. Non è un’arte da scrivania o fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare».
Questa unità richiede ascolto e riconoscimento, richiede la solidarietà «come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità».
Ancora, dice il Papa, l’unità, «se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che non diventando concreti finiscono per “cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano”. Anche questa è violenza, perché frustra la speranza. In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce come unico risultato solo maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa, menzognera la causa più giusta. Per questo diciamo “no alla violenza che distrugge”, in nessuna delle sue due forme».
Bergoglio torna a parlare di non violenza attiva «come stile di una politica di pace». Parla di dialogo e di buon vivere. «Küme Mongen», appunto buon vivere, «come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Mongen, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola; rendici artigiani di unità».