Dalla Cei nessun ulteriore commento dopo la nota, durissima, con la quale i vescovi italiani bollano come arbitraria la scelta del Governo di escludere la possibilità di celebrare la Messa con il popolo nonostante fossero stati discussi nei giorni scorsi protocolli di sicurezza per questa fase transitoria. In ballo il diritto costituzionale alla libertà di culto. E non solo per i cristiani. Leggendo con attenzione il messaggio della Conferenza episcopale italiana, che ripercorre la lunga interlocuzione con il ministero dell’Interno e la stessa presidenza del Consiglio, è chiara la posizione di una Chiesa responsabile che ha osservato, pur con sofferenza, tutte le misure «assunte per far fronte all’emergenza sanitaria» e che però, nel momento in cui vede allentarsi le limitazioni per contrastare la pandemia «esige di poter riprendere la sua azione pastorale». Il diritto di culto, infatti, al di là della solo celebrazione della messa, è di rango costituzionale e va garantito a tutti i credenti. «Non si capisce perché siano interdetti culto e preghiere, se celebrati in sicurezza. Forse non tutti i decisori penetrano il senso peculiare della messa per i credenti, di cui gli antichi martiri dicevano: “Sine Dominicum non possumus”», aveva da subito scritto Andrea Riccardi commentando la prima decisione del Governo di sospendere tutte le celebrazioni religiose. Ed Enzo Bianchi gli aveva fatto eco mettendo in dubbio la capacità che «la Chiesa sia davvero solidale con chi soffre, ha paura e cerca consolazione con l’accettazione delle misure che impediscono liturgie, preghiere e funerali partecipati per diminuire le possibilità di contagio». Di altra opinione, invece, il teologo Vito Mancuso che, rispondendo proprio al fondatore della Comunità di Bose, aveva, invece, sostenuto che «sia la storia che la cronaca dimostrano che in occasioni come questa l’attività liturgica e devozionale contribuisce ad aumentare il contagio, cosa né umana né evangelica» e che «non è vero che “senza eucaristia domenicale per i cristiani non è possibile vivere”» visto che la storia della Chiesa mostra che per secoli i cristiani andavano a messa solo una o due volte all’anno senza per questo vivere senza fede e che lo stesso Gesù «insegnava ai discepoli: “Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze amano pregare stando ritti per essere visti dalla gente. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”».
Dibattiti legittimi, su cui hanno pesato anche le parole di papa Francesco che ha messo in guardia dal rischio di una «fede virtuale» e di una situazione che «viralizza i sacramenti». E che però diventano incomprensibili alla luce delle nuove aperture che il Governo sta varando. Se, infatti, la Chiesa si è allineata, pur con sofferenza, alle decisioni dei diversi decreti volte a far diminuire il più possibile le occasioni di contagio, è difficile da capire perché, se si aprono musei, ristoranti e parrucchieri, si debbano continuare a tenere chiusi i luoghi di culto.
Il muro del Comitato scientifico, forse dettato dalle ultime notizie sui contagi all’interno delle comunità religiose (appena due giorni fa si sono registrati 20 positivi e 4 ricoveri nella sola università salesiana di Roma) o dello scetticismo sulla possibilità di contingentare gli ingressi alle liturgie ha indicato al Governo una strada che Conte ha sintetizzato nella sola apertura per i funerali (con i soli parenti stretti in misura non superiore a 15) e in un «confidiamo che nelle prossime settimane ci possa essere un'apertura anche per queste celebrazioni».
Dopo la nota della Cei, però, e il dissenso anche di alcuni ministri, in primis quello della Famiglia, Elena Bonetti, il Governo fa una parziale marcia indietro e il «dobbiamo continuare a interloquire con il Comitato tecnico scientifico, confido di lavorare per un pacchetto stringente di misure da mettere a punto nella prossime settimane» diventa, in una nota di Palazzo Chigi, la promessa che «nei prossimi giorni sarà elaborato un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza».
La Cei aspetta senza fare passi indietro. Anche per non creare precedenti sulla compromissione di un diritto costituzionalmente garantito. E mentre i vescovi continuano a fare la loro parte rispettando le norme anticontagio, richiamano però anche «la pienezza della propria autonomia», e ricordano che «l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale».