Ruben Espinoza, il fotoreporter assassinato il 31 luglio scorso.
Racconta Lydia Cacho, collega e amica di Espinosa: «Duarte minaccia sistematicamente e apertamente i giornalisti e l’ultima foto scattata da Rubén l’aveva così indispettito che aveva fatto ritirare la rivista su cui era pubblicata da tutte le edicole della capitale». A giugno, Rubén, 32 anni, aveva confidato ad alcuni colleghi di essere seguito da uomini in divisa. Pedinamenti, spintoni e il dito indice appoggiato sulla bocca per dire «taci». Qualcuno dal Governo lo aveva minacciato direttamente, dicendogli: «Piantala di fare foto, se non vuoi finire come Regina», riferendosi a Regina Martinez, collega assassinata nel 2012. Lui continuava a denunciare: «Veracruz è la culla della violenza contro i giornalisti»; in televisione aveva raccontato che il portavoce del governatore Duarte gli aveva offerto dei soldi per cancellare certe immagini scomode.
A metà giugno, per le continue minacce, Espinosa aveva deciso di spostarsi nella capitale, tornando a vivere dai genitori. Ma non aveva smesso di fare il suo lavoro: le immagini dell’appartamento di Città del Messico in cui è stato trovato morto assomigliano a quelle del suo ultimo servizio giornalistico. Erano le foto della casa di un gruppo di studenti, assaliti da dieci uomini armati di machete, al rientro da una manifestazione di protesta. Libri aperti per terra, vestiti gettati ovunque e macchie di sangue su pavimenti e pareti.
Mexico nos urge
La stessa scena del 31 luglio: in un quartiere alto borghese, Espinosa viene assassinato con l’attivista sociale Nadia Vera, anche lei fuggita da Veracruz, e tre donne che vivevano nello stesso appartamento, violentate prima di essere freddate. Tutti erano stati ammanettati, picchiati e poi finiti con un colpo di pistola alla testa.
Nel 2014, per Reporter sans frontières il Messico è stato il sesto paese del mondo con più giornalisti uccisi, ma è la prima volta che la vittima è un cronista rifugiatosi nella capitale. Spiegano i giornalisti messicani che hanno lanciato l’appello #MexicoNosUrge: «Non è stato sufficiente fuggire a Città del Messico, considerata finora un porto sicuro in cui ripararsi dalle aggressioni contro la libertà di stampa. Il messaggio è chiaro: non si è sicuri da nessuna parte. Tutti i giornalisti critici devono avere paura perché possono essere raggiunti nelle loro case, torturati e ammazzati».
Eppure, questo caso ha scatenato una reazione senza precedenti, con migliaia di persone per le strade, e la notizia su molti giornali internazionali. In pochi giorni, centinaia di artisti, scrittori e giornalisti, tra cui Noam Chomsky, Gael García Bernal e Salman Rushdie, hanno firmato una lettera aperta chiedendo giustizia per tutti i giornalisti messicani uccisi solo per aver fatto il proprio lavoro. Lydia Cacho, da anni attivista su questi temi, ha lanciato una petizione su Avaaz che ha superato le 750 mila firme. Dice: «Il Governo ora è in difficoltà, e noi possiamo aggiungere un’enorme pressione con oltre un milione di adesioni. Il corpo torturato e senza vita del mio collega Rubén può essere decisivo per mettere fine a questo abuso».
"Sono stata anche torturata e sbattuta in carcere da politici corrotti"
La violenza in Messico è dilagante, tra il 2007 e il 2014 ci sono stati più di 164 mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate 104 mila vittime. Secondo il Governo messicano, il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi supera le 30 mila.
Denuncia ancora Lydia Cacho: «Il Messico sarebbe una democrazia, ma per i giornalisti è pericoloso quanto Paesi in guerra come Iraq, Afghanistan e Somalia. E da quando c’è il presidente attuale, Peña Nieto, gli attacchi contro i media sono aumentati dell’80%».
Negli ultimi dieci anni, i Cartelli hanno devastato il Paese con una violenza senza precedenti per controllare il mercato della droga, assassinando una sfilza di giornalisti che investigavano su di loro. «Ma la maggior parte», continua l’attivista, «è stata uccisa per aver denunciato il coinvolgimento di politici corrotti. Io parlo per esperienza personale: le minacce di morte hanno accompagnato tutta la mia vita da giornalista e mi hanno obbligata ad abbandonare più volte il mio Paese. Sono stata anche torturata e sbattuta in carcere da politici corrotti».
Per firmare l’appello “Messico: basta attacchi alla libertà di espressione!”
https://secure.avaaz.org/it/ruben_global_l/?tQNYjeb