Un tempo era la Colombia. Oggi il Messico. Il
narcotraffico, piaga scavata nel tessuto sociale ed economico
dell'America latina e centrale - come documenta Saviano nel suo libro - ,
sta trascinando il Messico nel baratro. La Colombia, insieme a Perù e
Bolivia, rimane il principale produttore mondiale di cocaina. Ma negli
ultimi anni il potere delle Forze armate rivoluzionarie (Farc), i gruppi
guerriglieri colombiani legati al narcotraffico, si è inesorabilmente
sfaldato, anche a seguito della guerra lanciata dall'ex presidente
Uribe, che aveva messo la questione sicurezza nazionale tra le sue
priorità. Già nel 2008 il gruppo aveva subìto un pesante colpo con
l'uccisione del suo leader, Manuel Marulanda, detto "Tirofijo", e nel
2010 è stata la volta del numero due, il "Mono Jojoy", famigerato in
tutta l'America latina.
Tra Governo e guerriglieri ormai da mesi è in corso un impegnativo e controverso processo di pace all'Avana (Cuba),
che dovrebbe mettere la parola fine a un conflitto interno durato per
mezzo secolo. E solo pochi giorni fa le due parti hanno raggiunto un
fondamentale accordo sulla riforma agraria, la questione all'origine
della nascita della Farc e del sanguinoso conflitto. L'accordo prevede
un piano di sviluppo economico-sociale delle aree rurali, con la
concessione di terre ai contadini. Inoltre il Governo si impegna a
costruire servizi e infrastrutture nelle zone agricole. In questi anni la Colombia ha compiuto enormi passi avanti sul piano della sicurezza
e della stabilità interna. Sta puntando sul turismo e su una rinnovata
immagine del Paese che lo svincoli dal riferimento diretto alla droga e
al narcotraffico.
Ora, il vero inferno del narcotraffico in America latina è il Messico. Porta d'accesso agli Stati Uniti, verso cui è diretta la maggior parte dei traffici,
in questo Paese i cartelli della droga hanno conquistato un potere
sterminato, tanto da avere sottoposto al loro diretto controllo vaste
aree del territorio nazionale. Per il Governo messicano - prima quello
di Felipe Calderon, adesso del suo successore Enrique Peña Nieto,
insediatosi a dicembre del 2012 - si tratta di una questione di Stato,
di una guerra da combattere con il pugno di ferro.
Un conflitto efferato, sanguinoso, che devasta
soprattutto le zone di frontiera, lo Stato di Chihuahua, al confine col
Texas: qui, Ciudad Juarez è conosciuta come una delle città più
pericolose del mondo. Dal 2006 la violenza dei narcos ha lasciato sul
campo quasi 70mila vittime (tra i morti e le persone scomparse nel
nulla, fra cui bambini e tantissime donne), vittime degli scontri tra i
diversi cartelli che si contendono la gestione e il controllo dei
traffici internazionali, soprattutto verso gli Usa. Gli omicidi spesso vengono compiuti in modo particolarmente macabro e spettacolare
- ad esempio lasciando i cadaveri deturpati e mutilati lungo le strade,
appesi ai cavalcavia, per renderli visibili a tutti - come monito per
chi si azzardasse a ostacolare le attività illegali di un dato gruppo. I
cartelli attualmente attivi sarebbero dodici, ma ad essi se ne sono
aggiunti altri più piccoli, nati dalla frantumazione di quelli maggiori.
Il panorama dei cartelli, dunque, è diventato particolarmente
complesso, una sorta di mosaico di gruppi maggiori e minori, difficile
da definire e circoscrivere.
Della guerra dei narcos anche i giornalisti sono vittime. Così,
oggi, i media nazionali sono sempre meno disposti a raccontare lo
scempio del narcotraffico, per paura delle ritorsioni. E le denunce
passano soprattutto attraverso l'opera volontaria e coraggiosa dei
blogger che, attraverso la Rete, cercano di rompere il silenzio e far
conoscere l'inferno dei messicani al resto del mondo.