In occasione della cattura di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio 2023, il Generale del Ros (raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri Pasquale Angelosanto, che ha coordinato le operazioni, ha parlato esplicitamente di “Metodo Dalla Chiesa”, alludendo all’impulso e alla svolta metodologica data dal futuro generale Carlo Alberto Dalla Chiesa alle indagini di polizia giudiziaria, durante la lunga esperienza maturata a più riprese in Sicilia e a Milano e a Torino durante il terrorismo. Ma come è nato il cosiddetto “Metodo Dalla Chiesa”, in quali contesti, e come funzionava? Abbiamo provato a ricostruirlo.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta Carlo Alberto Dalla Chiesa era in servizio a Milano, chiamato a dirigere prima la compagnia interna dal 1955 al 1957, poi come aiutante maggiore della prima Legione fino al 1960 e infine comandante del gruppo interno. La città, al centro del boom economico, ne vedeva anche i risvolti criminali. Fu in quel periodo che Dalla Chiesa cominciò a elaborare metodi che puntavano sulla maggiore efficienza delle indagini, unendo metodi tradizionali e innovazioni tecnologiche. Quella del ponte radio per esempio, che con un sistema innovativo consentì di contrastare con maggior efficacia le rapine in banca, grazie all’installazione di un meccanismo che consentiva agli istituti di comunicare di credito pressoché in tempo reale e con maggiore sicurezza la situazione di pericolo alla centrale operativa. Solo un esempio, un dettaglio di una strategia complessa che avrebbe preso una forma più organica a partire dal 1964 con la nascita a Milano, ma anche Torino e Roma del Nucleo investigativo.
LA LEZIONE DALLA CHIESA
A Milano Dalla Chiesa gli impartì la sua lezione: fatta di studio, per avere una visione d'insieme dei fenomeni criminali, conoscenza del territorio, e orecchie allerta per cogliere le informazioni che dal territorio venivano e di un gruppo molto selezionato di uomini. Perché la fiducia reciproca poteva essere un’assicurazione sulla vita, concetto che probabilmente Dalla Chiesa aveva maturato dall’esperienza vissuta da partigiano nella zona di Ascoli Piceno durante la Resistenza.
In Dalla Chiesa di Andrea Galli, Giuseppe Nicastro uno dei primi uomini che entrarono a far parte del Nucleo racconta così l’incontro con Dalla Chiesa e con il suo metodo: «Espose tre concetti sintetici. Primo: massima discrezione (…). Secondo: rispettare e far rispettare le istituzioni italiane a cominciare dall’Arma. Terzo: decidere, assumersi sempre le proprie responsabilità, evitando di indugiare».
L’idea di fondo era aumentare l’efficienza dell’intervento investigativo mettendo in campo il massimo della professionalità e dell’organizzazione a partire dalle esigenze che il contesto richiedeva. Di quell’idea si trova un saggio interessantissimo, che per certi versi anticipa alcune delle più importanti acquisizioni poi sviluppate da Giovanni Falcone in tema di contrasto alla criminalità organizzata, in alcune audizioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa in Commissione antimafia tra il 1969 e il 1970, quando stava operando per la seconda volta in Sicilia. La terza e ultima ai primi anni Ottanta gli sarebbe costata la vita.
«Vorrei mostrare all’onorevole Presidente ed ai membri della Commissione» spiegava Dalla Chiesa nel 1969, «una scheda, che io ho preparato per la mia legione, per tutti i miei collaboratori, dedicata proprio ai mafiosi o indiziati tali. È una scheda che ho preparato con la mia modesta esperienza perché, attraverso le parentele e i comparati, che valgono più delle parentele, si possa avere una visione organica della famiglia, della genealogia, più che una anagrafe dei mafiosi. Quest’ultima è limitata al personaggio; la genealogia di ciascun mafioso ci porta invece a stabilire chi ha sposato il figlio del mafioso, con chi si è imparentato, chi ha tenuto a battesimo, chi lo ha avuto come compare di matrimonio; e tutto questo è mafia, tutto questo è propaggine mafiosa, è una ramificazione della quale possiamo sapere, domani, con maggiore certezza […] è molto più efficace seguire i mafiosi così, cioè non attraverso la scheda solita del ministero dell’Interno, ma da vicino, attraverso i figli, attraverso i coniugi dei figli, attraverso le provenienze, le zone dalle quali provengono, perché anche le zone d’influenza hanno la loro importanza».
E ancora nel 1970: «Io vorrei chiedere alla loro cortesia di osservare questa planimetria che ho organizzato con il mio collaboratore, capitano Russo, per avere una visione esatta dell'ubicazione attuale delle varie “famiglie” (perché non è più quella di un tempo ed anche noi ci dobbiamo aggiornare). Ogni cerchio rosso indica la presenza di una “famiglia”. Dalle “famiglie”, come loro vedono, si diramano determinati interessi (…). Praticamente noi possiamo attualmente dividere la città in due zone (…). Questi cerchi, segnati con due strisce, indicano quelli che noi pensiamo dediti al contrabbando, gli altri al settore edilizio. Questa, invece, è la zona famosa, Viale Lazio, dove si sono sviluppati negli ultimi anni interessi maggiori nelle costruzioni edilizie e nelle aree. Ora, con un esame di questo genere e con un riscontro, non so, degli appoggi anche elettorali, è facile desumere da che parte graviti una forza o un'altra».
Significava conoscere a menadito il territorio, in modo che non avesse segreti, studiare il fenomeno criminale perché a ciascuno parlassero gli indizi, ma soprattutto per collegare il mafioso alle sue relazioni e alle sue collusioni, studiare l’insieme non le monadi.
DALLA MAFIA AL TERRORISMO E RITORNO
Con identica professionalità, con simile strategia, nel 1974 sarebbe nato il Nucleo investigativo antiterrorismo, con Dalla Chiesa a capo della prima Brigata di Torino competente su Piemonte, Val D’Aosta e Liguria. Anche lì prevalevano gli stessi concetti chiave: conoscenza del territorio, studio del fenomeno criminale, immersione nei documenti in modo da poter incrociare dati e abbinamento di metodi tradizionalissimi, come il pedinamento e l’infiltrazione, con i più recenti ritrovati tecnologici, con l'obiettivo di anticipare le mosse dei terroristi,di imparare a pensare come loro per prevederne il passo falso. La storia della cattura di Renato Curcio è anche la storia di estenuanti pedinamenti. Anche nel caso del terrorismo si trattava di colpire un’organizzazione non dei singoli e quindi i contatti.
Sono gli stessi meccanismi serviti al Ros, che di quel nucleo investigativo è l’evoluzione, per giungere a Matteo Messina Denaro. Non da soli, ovviamente, ma arricchiti del bagaglio di conoscenze e di strumenti che ha lasciato alla magistratura - da cui la Polizia giudiziaria funzionalmente dipende - Giovanni Falcone. Non per caso l’artefice della messa a sistema del concetto secondo cui il contrasto a una complessa organizzazione è possibile soltanto con altrettanta organizzazione.
Si tratta dell’intuizione che, una volta compreso che Cosa nostra era organizzazione verticistica e unitaria, ha dato vita alla Procura Nazionale Antimafia e alle Direzioni Distrettuali. Eredità dei cosiddetti “pool”, il primo nucleo dal basso di scambio di informazioni all’interno dello stesso ufficio che era nato - anche qui tante cose si tengono - tra Milano e Torino durante il terrorismo, nel timore che un omicidio mirato potesse “uccidere” la memoria storica del fascicolo uccidendo la persona che ne aveva la titolarità.
Una doppia precauzione, anch’essa rivissuta di frequente in una frase di Falcone che in certi giorni assume un significato particolare: «Se succede qualcosa a noi, altri continueranno».
Né Dalla Chiesa né Falcone furono immediatamente compresi, entrambi trovarono ostacoli dentro le rispettive categorie.