Ecco un'altra storia raccolta dai volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Mi chiamo Anna, ho 41 anni e vivo in una città dell'Emilia Romagna. Mi sono sposata giovane e ho avuto presto due figli. Nel 2003 ho scoperto di essere nuovamente incinta. Allora lavoravo in una piccola impresa artigiana. Quando li ho informati della mia gravidanza, mi hanno risposto: «Noi ti abbiamo assunto perché avevi dei figli già grandi, non ci aspettavamo questa gravidanza; ora che sei incinta ti lasciamo a casa!».
Allora mi hanno fatto vedere una lettera di dimissioni dove c'era già la mia firma. Evidentemente quella firma l'avevo fatta io al momento dell'assunzione: in quell'occasione infatti mi avevano dato molti documenti da firmare, e non feci caso su cosa ci fosse scritto sui vari fogli.
A quel punto però sono andata dal sindacato a denunciare l’accaduto. Loro mi hanno detto che per legge non è possibile per una donna dimettersi né essere licenziata senza il consenso dell’Ispettorato del Lavoro nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il primo anno di vita del bambino; questo per evitare che vengano esercitate pressioni sulla donna per spingerla a lasciare il lavoro.
Siamo allora andati all'Ispettorato del Lavoro, che ha convocato i datori di lavoro, i quali hanno dovuto prendere atto che non potevano lasciarmi a casa. Io però a quel punto sono rimasta così male per quello che era successo che ho deciso che non volevo continuare a lavorare lì. Allora il sindacato per venirmi incontro ha proposto all’Ispettorato e ai datori di lavoro che io rimanessi a lavorare ancora fino alla maternità obbligatoria e poi fossi licenziata solo al termine di questo periodo, per usufruire di un periodo di mobilità retribuita di un anno.
Se i datori non accettavano, sarebbero stati denunciati per avermi fatto firmare il foglio di dimissioni in bianco. Loro hanno accettato, pertanto a fine maternità obbligatoria sono stata licenziata per “riduzione del personale”.